«Il mondo della cultura, dell'intrattenimento culturale in senso largo, sta vivendo una crisi epocale. Il problema vero è cosa fare adesso»

Venerdì 15 Maggio 2020 di Paolo Navarro Dina
Marco Goldin
Colori, musica, immagini. Marco Goldin, infaticabile organizzatore culturale al tempo del Coronavirus. Giorni difficili, giorni delicati per chi vive di scambi culturali.

Come se lo immagina il futuro lei? 
«Non ho doti divinatorie, so solo che un futuro ci sarà. Dire quale è impossibile. Dipenderà da noi, mi piacerebbe dire, da tutti noi. Ma non sarà così, credo. Oppure, sognando e sperando, immagino che finalmente potremo davvero costruire un futuro diverso. A misura d'uomo? Sì, vorrei dire proprio questo».

Sono cambiati i ritmi con la pandemia?
«Questa parola ha messo sufficiente inquietudine in tutti noi per settimane e settimane, e la sua area semantica è slittata di parecchio verso il senso di una catastrofe. Vorrei tenermene lontano. Poi mi interrogo da tempo sulla gestione di questa crisi e non sempre mi do risposte positive. L'emergenza sanitaria ha travolto tutto il resto, che adesso sta però, ovviamente, affiorando con chiarezza. Non so quanto facile sarà ricostruire su queste macerie, su un tessuto psicologico delle persone che a mio modo di vedere nessuno si è curato di tenere vigile e soprattutto allenato. Le prime settimane di lockdown, orrenda parola, sono state quasi una gara a intrattenere, dai balconi o nelle piazze virtuali. Alla lunga tutto questo si è spento e nessuno ha aiutato le persone a comprendere la solitudine, il suo senso, un sentimento di privazione della libertà. Ecco, oltre al drammatico dato economico che lascerà appunto macerie fumanti, c'è anche questo aspetto di natura psicologica da tenere, e bene, in considerazione».

Il mondo dell'arte, la cultura in generale sta subendo grandi contraccolpi dallo scoppio dell'epidemia. Esiste un modo per uscire dall'impasse? Il futuro prossimo si annuncia arduo.
«Il mondo della cultura, dell'intrattenimento culturale in senso largo, sta vivendo una crisi epocale. Dire nulla sarà più come prima è una formula vaga e che personalmente non mi interessa. È la più totale ovvietà. Ma il problema vero è cosa fare adesso. Anzi, è un adesso che verrà spostato di molto in avanti. Le misure di distanziamento sociale nei luoghi di aggregazione renderanno impossibili le iniziative alle quali siamo stati abituati negli ultimi decenni. I concerti, le rappresentazioni teatrali, le mostre, il cinema, come troveranno la forza di esistere se potranno ammettere nelle sale, nei musei, negli stadi, nei teatri meno della metà delle persone di prima? Chiaro che non esiste più una sostenibilità economica nel settore. In più, la confusione allo stato attuale regna sovrana, senza alcuna indicazione su come procedere. Non so quanti operatori privati potranno permettersi un simile percorso».

Il mondo cambia, cambierà anche il sistema dell'arte. Rimarrà la rappresentazione, anzi vi saranno nuovi e originali spunti, cambierà la sua fruibilità oppure torneremo a gironzolare tra i quadri e le esposizioni?
«Questo è impossibile a dirsi. Il futuro a me pare del tutto imperscrutabile. Impossibile progettare e soprattutto programmare in simili condizioni. Tutto è un salto nel buio, persa ogni certezza. Di sicuro chi vorrà andare avanti dovrà modificare ben più di qualcosa. E penso anche se, prima o poi, un vaccino arriverà, o forse ancor meglio un medicinale atto a curare come si fa con una normale influenza. Il rapporto diretto con l'opera d'arte è insostituibile, così come con un musicista, un'orchestra, con un attore. Fa eccezione il cinema, che non prevede la presenza fisica di un attore, ma anche il cinema alla fine ha gli stessi problemi delle altre arti. Prevede l'aggregazione delle persone, come per un rito collettivo nel nome della bellezza. E questa è oggi una sciagura».

La pandemia nell'arte. A lei cosa le viene in mente?
«Posso dirlo? È un argomento che non ha mai suscitato in me alcun interesse. Lo spettacolo del dolore mostrato, esibito, fatto catarro e febbre, non l'ho mai particolarmente amato. Se penso al dolore rappresentato, penso a qualcosa di silenzioso, che abbia a che fare con uno sguardo che racconta. Molti citano a proposito Hieronymus Bosch. Quadri belli, ci mancherebbe, anzi alcuni bellissimi. Ma allora preferisco di gran lunga il dolore solitario di Caravaggio, ancor più assoluto secondo me. O il dolore psicologico delle figure di Hopper o di Andrew Wyeth».

L'immagine nella storia è sempre stata rivoluzionaria ed ha cambiato le nostre percezioni della realtà nel tempo. Lei come se lo immagina un museo nell'era del dopo Coronavirus?
«Rabbrividisco al pensiero che possano cominciare a uscire, anzi sta già capitando ovviamente, libri e romanzi sul coronavirus, o quadri o musiche. Io un museo dopo il coronavirus me lo immagino invece ancor più pieno di bellezza e luci e colori. Un museo che sappia tenere insieme tutte le arti, l'immagine come la parola, la musica come la poesia. Me lo immagino come il desiderio di una bellezza che non tramonta mai».

Internet è diventata lo strumento popolare per eccellenza, sarà più facile o più difficile ragionare sulle opere d'arte? Dovremo accontentarci di vedere quella tela, quel capolavoro attraverso la mediazione del nostro monitor sul computer?
«Sarebbe la morte dell'arte. Pensare a pittori, da Caravaggio a Van Gogh e infiniti altri, che hanno prestato il loro corpo alla pittura. Così come scultori alla scultura. Come possiamo pensare di poterli ridurre a un solo linguaggio 4K o 5G? L'arte non è una telefonata, non è un videomessaggio, né Zoom né Skype. L'arte è verità, è verità della presenza. L'esserci e non lo scomparire dietro una tenda virtuale. Lo dico pure dopo avere fatto un grande successo con le 22 puntate su Facebook sulla vita di Van Gogh raccontata attraverso le sue lettere. Oltre 1,5 milioni di visualizzazioni, ma adesso avrei voglia di tornare a raccontare la pittura in teatro, basta virtualità. Che sono sicuro non possa essere l'unico futuro. L'arte ne uscirebbe a pezzi».

Se non altro il cinema ha trovato, a fatica, una propria dimensione digitale. Con il mondo dell'arte sarà ben diverso. La riproduzione dell'opera rischia di togliere tutta la poesia. Il trovarsi a faccia a faccia con le pennellate di un Van Gogh, di un Monet o con le sculture di Michelangelo o di un Giacometti.
«Se parliamo di poesia, per me la vera ragione di un avvicinamento all'arte, essa si incarna nella verità dell'opera. E quella verità noi la sentiamo primariamente nella materia di cui l'opera stessa è composta. Sia essa colore o plasma del legno o del gesso o della terracotta. Come potremmo riconoscere Donatello se non in questo modo? L'opera può essere riprodotta, non sostituita».

Con le nuove tecnologie ci viene permesso di conoscere più a fondo un'opera d'arte. L'ipertesto ci offre ampi spazi di manovra. Tutto ciò è un bene o un male?
«Non sono assolutamente contro le nuove tecnologie, anzi spesso le ho utilizzate. Non è né un bene né un male. Ma serve un equilibrio che utilizzi la tecnologia come un elemento di suggestione e di poesia. Ecco, torniamo qui».
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