La storia della famiglia Paoletti: «Lavoriamo la lana da oltre 200 anni»

Lunedì 5 Luglio 2021 di Edoardo Pittalis
Andrea e paolo Paoletti
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TREVISO - Da 226 anni i Paoletti filano la lana.

Sempre in mezzo alle colline del Prosecco, perché il fiume Follina è breve, ma non si ferma mai e soltanto l'acqua una volta muoveva le macchine del lanificio e i battiferro e i mulini che solo a Pieve di Soligo erano sette. E alla lana, sono convinti, fa bene l'aria che scende dal Visentin. Ci fu un anno, il 1840, in cui il fiume sembrò esaurito e mesi di processioni alla Madonna di Follina non bastarono a far scendere la pioggia. Cinque manifatture chiusero nella valle. Un Paoletti, che aveva visto le fabbriche inglesi, s'inventò una macchina a vapore per muovere i telai e la chiamò la locomobile. All'ingresso del Lanificio Gaspare Paoletti su una pietra è incisa la data: 1795. Oggi è al lavoro la decima generazione. Si fabbricano tessuti cardati per uomo e donna; prodotti per marchi di alta qualità e lusso: da Max Mara a Yves Saint Laurent, alla Etro. Trenta dipendenti, 200 mila metri di tessuto, il fatturato sfiora i 5 milioni di euro. Andrea Paoletti, 73 anni, dirige l'azienda; lo affiancano nel lavoro i figli Paolo e Marco, 42 e 38 anni. Andrea ha vissuto gli anni d'oro e quelli bui, è stato l'uomo della rinascita.


Quanto pesa una lunga storia in un settore modernissimo?
«È una sfida molto complessa, il tessile è un mestiere antico a bassa tecnologia, conta molto l'inventiva, saper interpretare le tendenze del mercato. Rispetto a quando bastava la qualità della materia prima, adesso occorrono ricerca avanzata, i clienti vanno alla velocità della luce. Il tessuto semplice ce lo hanno portato via i cinesi ormai da vent'anni e in questo periodo metà dei produttori ha chiuso. Negli anni '70 metà dei vestiti erano fatti in lana, oggi la percentuale è meno del 5%. Pesano, però, la storia, la tradizione, la ricerca, lo studio degli archivi. C'è il problema del reclutamento del personale: non ci sono più scuole di periti tecnici, li devi formare tu. Un mestiere che si tramanda, ma non attira i giovani, per questo ogni anno organizziamo una rassegna di eventi». 

Come è nata la vostra fabbrica? 
«Gaspare è stato il primo, poi ha preso tutto in mano la moglie Regina, ma è stato il nipote Paolo a fare le cose in grande nella seconda metà dell'Ottocento: è stato anche il primo sindaco di Follina nel Veneto italiano. Quando è arrivata la Grande Guerra c'erano i due fratelli Gaspare e Paolo e il lanificio era fabbrica militare di divise e di coperte per le truppe. Dopo la rotta di Caporetto e l'invasione, il lanificio è stato adibito a ospedale austriaco e la casa dei Paoletti a comando tedesco. Gaspare prende la famiglia e i vecchi operai e su carri trasferisce tutto a Biella per ricominciare a lavorare: attraversano il Piave a Ponte della Priula, aspettano che prima passi in armi e in perfetto ordine la Brigata Sassari, subito dopo il ponte sarà fatto saltare. Sul registro del personale il 30 ottobre 1917 l'impiegato ha scritto Intermezzo invasione, con inchiostro rosso».

La ripresa prima di un'altra guerra
«Tornano i due fratelli, Gaspare con Giacomo che a Biella ha sposato l'erede di una famiglia laniera, e si dividono l'impresa: al primo il lanificio, al secondo le terre. Hanno scelto col metodo delle pagliuzze e la scelta coinvolge tutto il paese, le campane suonano a stormo. Durante il fascismo c'è lavoro, fino alla guerra. Le cose si complicano dopo l'Armistizio: la fabbrica fa divise per i nazifascisti, ma i tedeschi accusano Gaspare di favorire i partigiani in combutta col conte Brandolini. La situazione rischia di precipitare quando arriva una grossa fornitura di panno grigioazzurro per i tedeschi; i partigiani lo vengono a sapere e Gaspare concorda un piano: lui completa la fornitura, poi fuori della fabbrica un commando partigiano assalta e porta via tutto. Ma i tedeschi catturano Gaspare e il conte e minacciano di giustiziarli; li salva l'intervento di una spia altoatesina. Per anni nella zona si vedranno ragazzini con pantaloni e giacche grigioazzurre».

Lei è nato dopo la guerra, come era allora la vita in collina?
«Siamo cinque fratelli, il più grande Giovanni non ha mai pensato di continuare l'attività della famiglia; doveva farlo Maurizio, ma la sua vita erano gli insetti, lavorando in fabbrica si è laureato e ha insegnato entomologia all'Università di Padova. Allora è toccato a me. Abbiamo avuto una bella infanzia in una grande casa, cinque bambini in una famiglia che in paese era considerata privilegiata. Io a sei anni scappavo di casa per andare alla mensa dell'azienda a mangiare pasta e fagioli nella scodella. Il liceo l'ho fatto in collegio a Borca di Cadore, il Dolomiti, oggi è un pensionato. Mi è servito a conoscere i compagni, ad appassionarmi allo sport; rientrato ho giocato nella prima formazione del Follina, maglietta rosso e blu. Università a Padova, dove ho conosciuto mia moglie Francesca che era campionessa di nuoto con la Rari Nantes, ha vinto il titolo italiano nei 400 metri stile libero, era amica di Novella Calligaris. È stata fortunata, doveva partire con la Nazionale per Brema, sono morti tutti su quell'aereo. Era fine gennaio del 1966, l'aereo precipitò in fase di atterraggio e prese fuoco, 46 vittime, tra loro la selezione della Nazionale di nuoto. C'era anche il dorsista veneziano Amedeo Chimisso. Le gare si disputarono ugualmente, nelle corsie vuote stesero un drappo nero sull'acqua e misero un fiore bianco sui blocchi.

Allora è toccato a lei entrare in fabbrica
«È toccato a me che studiavo Scienze Politiche, in quegli anni mio padre mi ha mandato in Inghilterra da un amico commerciante di lane, Helmut Mainz: era un ebreo scappato dalla Germania nazista con i soldi nascosti in una scarpa, la sua famiglia era stata sterminata ad Auschwitz. È stata la mia scuola di vita e di umiltà, Helmut mi ha insegnato tutto quello che so. Il viaggio di nozze non l'abbiamo fatto, siamo partiti per le Cinque Terre con la 127, siamo rimasti senza benzina. Dovevamo andare subito ad Amburgo, io per conoscere i nostri clienti, lei in biblioteca per consultare documenti per la tesi».

La crisi del tessile sul finire degli Anni Settanta vi ha messo in ginocchio?
«C'è stato il periodo nero dell'azienda, il lanificio si è fermato, è andato in concordato. In questo caos arriva la lettera di un vecchio cliente dalla Romagna che non sa nulla di quello che accade, fornisce un campione di tessuto e ne ordina mille metri. Il commissario autorizza l'esperimento, gli operai ci stanno. Il cliente ha pagato puntuale e non ha mai saputo che eravamo in crisi; altri vecchi clienti italiani e tedeschi ci hanno aiutato e abbiamo ricominciato piano piano. Siccome nessuno voleva comprare la fabbrica, lo abbiamo fatto io e mio fratello, con un vecchio finanziamento Imi. Era il 1984, siamo sempre qui. Ricordo il momento in cui ho dovuto ordinare tre balle di lana dalla Nuova Zelanda, arriva il camionista, biondo, con gli zoccoli. Tre balle sono 800 chili, vederle scaricare è stato emozionante». 

Paolo ha 42 anni. Ha fatto il suo apprendistato all'estero, era a New York l'11 settembre del 2001, nei giorni della paura. Come è stato rientrare dalla Grande Mela alle colline di Follina? 
«Sapevamo che questo era il nostro mondo. Prima ci hanno fatto giocare, facevo tennis e naturalmente nuoto perché mamma ci ha mandati tutti in piscina. Sono timido, introverso, mi sono aperto lavorando a Londra per uno stilista inglese, poi in Germania. A New York ero da Moschino quel settembre delle Torri Gemelle, è stato intenso partecipare a quello che la città faceva per reagire. L'ufficio è venuto solo dopo la laurea in economia gestionale».

Ultimo aggiornamento: 6 Luglio, 10:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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