Paolo Fassa: «A 80 anni innovo ancora. L'evasione fiscale? Ho fatto una figura di...»

Lunedì 24 Gennaio 2022 di Edoardo Pittalis
Paolo Fassa
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SPRESIANO - Da trecento anni i Fassa lavorano la calce. L'antico forno di Spresiano adesso è uno dei 19 stabilimenti sparsi tra Italia e mezzo mondo. I Fassa si portano dietro anche il nome da tramandare, quello di Bortolo. Dal Bortolo che era a capo dell'azienda Fassa dagli Anni Trenta, al Bortolo che regge oggi tutto quello che c'è sotto il marchio Fassa Bortolo. Il nonno guarda e controlla tutto dal suo busto in bronzo collocato all'ingresso. In mezzo c'è Paolo, 80 anni, cinque figli, nato a Spresiano (Treviso), primo giorno di lavoro 22 ottobre 1961: l'ha scritto dietro un fermacarte di marmo bianco sormontato da un cuore di pietra scura. Paolo, che è presidente onorario, a cavallo del Duemila ha fatto grande la Fassa srl. Ora vuole aprire una nuova fabbrica in Sicilia, nella provincia di Enna.

Metà del mercato dell'intonaco premiscelato in Italia lo coprono loro. Poi cartongesso, colle per ceramica, colori per l'edilizia, prodotti per il risanamento e per il restauro. E naturalmente il più vecchio prodotto della famiglia: fanno 600 mila tonnellate di calce in un anno; due terzi sono assorbiti dalla siderurgia. Una grande impresa con 1700 dipendenti, compresi 350 venditori, e un fatturato che si avvicina ai 550 milioni di euro. «Un bel balzo, grazie anche al bonus edilizio».


Tutto è nato dalla calce?
«La mia memoria storica risale a nonno Pietro, morto ancora giovane per un infarto: questa storia delle coronarie è un problema ereditario. La nonna Antonia era tremenda, amava la velocità, sarà per questo che io amo le macchine e ho due Mercedes AMG e una Porche TurboS. La nonna era sempre lì che frustava i cavalli delle carrozze sulle quali viaggiava. Una volta per entrare troppo veloce nella vecchia fornace, tra Spresiano e Ponte della Priula, strinse in curva, il calesse si è ribaltato e lei è finita nel fossato. Alla morte del nonno, mio padre che era nato nel 1905, per il dolore è scappato dal collegio di Oderzo. C'era bisogno di uno che prendesse in mano le sorti dell'azienda ed è toccato a lui che voleva andare all'università, anche perché suo fratello Enrico amava la bella vita e le belle donne. È morto a 34 anni in un incidente stradale. Era andato in Argentina per far soldi, invece ha fatto debiti e ha pagato tutto mio padre».


Poi l'azienda Fassa è cresciuta
«I Fassa per tradizione sono andati tutti al collegio Brandolini di Oderzo. Anch'io mi sono fatto quattro anni, poi ho sofferto di una forte depressione dovuta al fatto che stavo lontano dalla mamma. Forse c'entra anche il fatto che da bambino ho avuto la polio e sono stato operato, per fortuna senza gravi conseguenze. Allora mio padre ha tolto tutti i sette figli dal collegio e ci ha iscritto alle scuole pubbliche e col tempo ci siamo trasferiti a Treviso. Mio padre era un impulsivo che si accedeva come un cerino, ma non ci ha mai fatto mancare niente, l'azienda era un po' vecchia, ma reggeva bene il mercato. Si poteva dire che la famiglia era ricca e l'azienda povera, oggi l'azienda è molto più ricca della famiglia. Abbiamo avuto un'infanzia stupenda, eravamo una famiglia benestante, la prima a Spresiano ad avere un televisore nel 1954 proprio appena nata la Rai-tv. Ho anche un bel ricordo dei tre anni di collegio, quando riprenderemo dopo il Covid ci ritroveremo tra ex allievi. Un sabato sono andato a Oderzo a visitare il Brandolini, ricordavo cameroni enormi, oggi ci sono stanzette singole».


Quando Paolo Fassa ha incominciato a lavorare?
«Siamo sette fratelli, cinque maschi, ma a nessuno interessava il vecchio mestiere della calce in quella vecchia azienda sempre polverosa. A decidere per me è stata mamma Amelia: mi ha spiegato che dovevo aiutare papà e per convincermi mi ha raccontato che i professori dicevano che avevo le caratteristiche dell'imprenditore. Ho sempre tenuto conto del giudizio dei professori, così mi sono deciso, ma a un patto: mi sono dato due anni di tempo, se non fosse andata bene sarei tornato all'università. Era il 1961, non ne sono più uscito. Da mio padre ho imparato il rispetto per l'azienda, il mestiere e una lezione: ti devi comportare sempre in modo che i tuoi dipendenti ti stimino. Io ero più moderno rispetto a lui, dopo aver lavorato nella vecchia fornace sono andato a fare il venditore ed è incominciato il successo. Facevo tipi di calce innovativi, già pronti all'uso: in questo modo si risparmiava un passaggio industriale. Ancora adesso, passati gli 80 anni, sto facendo prodotti nuovi, mi sento sempre come se cambiassi macchina o barca, che è l'altra mia passione. Adesso stiamo lavorando col bonus edilizio, le vendite sono quasi raddoppiate. Nel settore intonaci premiscelati siamo tra i primi tre in Europa. Lavoriamo sempre in stretta collaborazione con Legambiente. Oggi c'è un problema nuovo legato al forte aumento delle fonti energetiche e delle materie prime».


Siete stati anche sponsor di una squadra ciclistica?
«Per sei anni, dal 1999 al 2005, una squadra ciclistica che si chiamava proprio la Fassa Bortolo e aveva un fuoriclasse come Alessandro Petacchi. La prima volta che il nostro campione ha battuto in volata Cipollini ho fatto salti di gioia in salotto. Ma dopo sei anni ho smesso per il costo, ho speso quanto per fare tre stabilimenti nuovi».


E l'affare della barca sequestrata, che poi è uno yacht da 50 metri?
«È una brutta vicenda. Le barche sono una mia grande passione, la prima l'ho presa nel 1974, quella che ho adesso è l'ottava, ci sono voluti due anni e mezzo per farla. L'ho ordinata nel 2005 dopo che avevo comprato una casa in Costa Smeralda ed ero andato a salutare per l'ultima volta il mio amico sardo Rubiu. Prima si chiamava Gitana, adesso è Blanca, è uscita dal più vecchio cantiere italiano, Baglietto, che quando ha festeggiato i 150 anni in copertina del libro ha messo proprio la mia barca. Però sono stato mal consigliato nell'operazione finanziaria, per risparmiare l'Iva ho fatto un'evasione. Il pm che ha svolto le indagini è stato bravo, mi ha sequestrato la barca e mi ha raddoppiato la multa, mi è costata più di 10 milioni di euro. Quel giudice ha avuto ragione, ho imparato che ci sono cose che non si possono e non si devono fare. Ho fatto una figura di cacca. È anche accaduto che la Cassazione non sia stata informata in tempo dell'accordo raggiunto e mesi dopo ha sentenziato sulla barca! Pare si sia smarrita una Pec tra un ufficio e l'altro!».


Perché ha deciso di pagare le spese legali del ragazzo che ha ucciso il padre?
«È successo due anni fa, era il 30 aprile, lo ricordo bene perché è il giorno del compleanno di mia moglie: lo studente Alex Pompa aveva ucciso il padre con decine di coltellate. Poi si parlò di questo minorenne: veniva descritto come un bravo ragazzo che i professori definivano un alunno modello. Ho chiesto alla mia segretaria Barbara di stampare tutte le notizie sulla vicenda, a incominciare dalle pagine del Gazzettino che era il giornale di papà e sul quale ho imparato a leggere. Si capiva che Alex aveva ucciso per salvare la mamma e mi sono chiesto se avesse i soldi per un buon avvocato. Il mio amico magistrato Giovanni Schiavon mi ha suggerito di cercare un penalista a Torino, sede del processo: l'avvocato Strata che, però, doveva essere nominato dalla famiglia dell'imputato. Il sindaco del paese mi ha messo in contatto con la madre del ragazzo e sono emerse le violenze del padre ai danni della moglie e dei figli. Con Alex ci siamo conosciuti a fine ottobre davanti al tribunale di Torino e ci siamo abbracciati. È stato assolto. Per metà di questo gennaio era tutto organizzato: dovevano venire Alex e la famiglia, l'avvocato Strata, il sindaco, i professori. Avevo noleggiato un pullman da Torino, li avrebbe portati tutti qui. Niente da fare per via del Covid, ma è solo rimandato».

Ultimo aggiornamento: 17:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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