Il patron della Dersut e i segreti del caffè: «Il migliore è senza zucchero, in Veneto il prodotto perfetto»

Lunedì 25 Maggio 2020 di Edoardo Pittalis
Caballini con le figlie
Come deve essere un buon caffè?
«Senza zucchero, se è buono si deve apprezzare amaro. Non troppo bollente. Valgono le quattro M: macchina, miscela, macinatura, mano dell'uomo. Se non ci sono una buona macchina, una buona miscela ben macinata e la capacità dell'operatore il caffè non viene bene. A Napoli rispondono con le loro quattro C: come coce chistu cafè! Come è caldo questo caffè!».

Giorgio Caballini conte di Sassoferrato, 74 anni, nato a Trieste, di caffè si intende. Da oltre settant'anni l'azienda della sua famiglia, la Dersut di Conegliano, macina caffè. Un milione di chili all'anno. Oggi la Dersut fattura 20 milioni di euro, ha settanta tra dipendenti e rappresentanti, magazzini sparsi nel Triveneto e anche in Germania; oltre cento caffetterie dirette. Lavorano esclusivamente nel settore bar, hotel, ristorazione e catering. È tutto pronto per la costruzione della nuova sede, vicino all'ingresso dell'autostrada; sarà trasferito anche il museo del caffè, unico del genere in Italia. «Siamo fermi un attimo, il tempo di capire come andranno le cose».

Come è nata l'azienda?
«Mio padre Vincenzo l'ha rilevata nel 1949 con mamma Elisabetta che è triestina. Si chiamava Dersut dalle iniziali dei fondatori: De Rosa e Suttora. Lui lavorava alla Fiat di Trieste, gli avevano proposto di dirigere la filiale di Cagliari, ma ha scelto questa piccola torrefazione di Conegliano. Con mia madre si erano conosciuti a Trieste dove il nonno era direttore del Monopolio dei Tabacchi. Da tempo ormai la nobiltà non pagava più e i Caballini avevano lasciato le Marche per lavorare in giro per l'Italia. La famiglia materna, invece, trattava caffè crudo. A Trieste c'erano il porto franco e molte agevolazioni doganali e fiscali. Il dopoguerra sul confine orientale era delicato, ma la guerra fredda offriva anche opportunità. Mio padre ha lasciato il vecchio lavoro con disperazione della mamma che non voleva spostarsi dalla sua città. Così è iniziata l'avventura».

Come è stato l'impatto da una città sul mare a una cittadina sui colli?
«Quando sono arrivato avevo tre anni, ricordo che la mamma era insofferente perché abituata a vivere in una città asburgica e molto aperta; per anni ha mantenuto i suoi artigiani triestini, portava sempre a riparare le scarpe a Trieste. Anche se per la famiglia di mamma il caffè era il lavoro, importavano caffè crudo e per anni papà ha comprato la materia prima dal nonno. Noi abbiamo cambiato arrivando alla torrefazione che è il momento in cui la trasformazione chimica è notevolissima, c'è un aumento del volume del cinquanta per cento e un calo del peso del venti per cento. L'inizio è stato duro, le ditte locali erano tutte contrarie al nuovo intruso, quando le auto della concorrenza passavano davanti ai nostri magazzini, suonavano il clacson per farci capire che non ce l'avremmo fatta. All'inizio la Dersut privilegiava i negozi di generi alimentari, poi si è spostata sui bar».

E per un bambino?
«Sono cresciuto a Conegliano, l'infanzia è stata piacevole, avevamo spazi immensi per giocare. Facevo le elementari alla Regina Margherita quando ho visto che estirpavano le viti e spianavano quello che era stato fino ad allora il nostro campo da gioco. Me la sono presa, volevo protestare, poi qualcuno mi ha fatto notare che quel terreno era stato acquistato da mio padre per costruire la fabbrica. Ci sono rimasto male ugualmente. Avevo 12 anni, quando papà un giorno mi chiese: Come pensi che andrà a finire?. Ho risposto che pensavo che dovevamo dare a tutti i nostri clienti una macchina per il caffè. Mi diede del matto. Invece, è andata proprio così, anche di più! Mio padre ha perso clienti perché non voleva dare le tazzine in omaggio, adesso oltre alla macchina devi fornire l'assistenza e spesso dare una mano per iniziare l'attività. Facciamo anche istruzione, insegniamo ai baristi come si deve fare il vero caffè».

L'ingresso nell'azienda?
«Sono entrato in azienda nel 1970 subito dopo la laurea a Verona in Merceologia con particolare attenzione al settore del caffè. Ho affiancato mio padre sino alla sua morte del 2001, nel frattempo sono entrate in fabbrica le mie due figlie Lara e Giulia. Ho incominciato salendo sul furgone dei rappresentati per conoscere la clientela ed era un mondo molto diverso, la parte fiscale e burocratica era quasi inesistente. È cambiato tutto dopo il 31 dicembre 1972, con l'entrata in vigore dell'Iva».

È cambiato il consumo del caffè?
«È sicuramente aumentato, oggi ogni italiano consuma in un anno 6 chili di caffè; nei paesi Scandinavi ne consumano il doppio, anche se il prodotto è diverso. Noi siamo l'unico paese al mondo che ha l'espresso. Ho fondato il Consorzio di tutela del caffè espresso italiano e abbiamo chiesto all'Unesco che lo faccia diventare patrimonio immateriale. Si tratta del caffè fatto dal barista, macinato al momento ed è questa la tradizione italiana. Il banco del bar c'è solo in Italia. Certo produciamo anche noi le cialde, sono comode, il mondo va in un certo modo, non ci può mettere contro come Don Chisciotte. Noi compriamo caffè dalle due fasce tropicali, il maggior produttore mondiale è il Brasile, da solo copre il 35%».

Dove si beve il miglior caffè?
«In tutta Italia è fatto bene. Nel Veneto è perfetto. Prima di tutto dipende dal prodotto, un prodotto cattivo non può diventare buono. Tra Nord e Sud esistono differenze per la tostatura: chi ha una percentuale di Robusta maggiore rispetto all'Arabica, chi viceversa. Il Nord preferisce più gli aromi, il Sud il gusto più forte. I gusti variano a seconda delle latitudini, in Svezia ad esempio il caffè lo bevono a tavola in caraffe, è di colore chiaro. In Sicilia il caffè deve essere proprio nero».

Come è nata l'idea del museo?
«Si chiama dalla pianta alla tazzina di caffè, vuole curare le nostre radici, comprende anche la scuola di formazione dei nuovi baristi. Il museo è aperto al pubblico, gratuito, basta prenotarsi, vengono studenti anche dall'estero, arrivano le nostre scuole alberghiere. Ci sono macchine tostatrici antiche e le varie macchine da bar di oltre cento anni, alcune le abbiamo trovate a Buenos Aires, conservate nei grandi locali della capitale alla fine dell'Ottocento. È la storia soprattutto dell'espresso. Si può vedere come si faceva il caffè una volta nelle case, c'è una ricca collezione di macinini e tostatori di ogni genere; di caffettiere fino alle attuali macchine automatiche. Nel nuovo museo avremo anche le piantagioni di caffè in serra».

C'è un futuro per l'espresso italiano?
«L'espresso si svilupperà sempre di più nel mondo, se si pensa che oggi rappresenta appena l'uno per cento! In Russia il caffè ha superato il tè e anche nella classica Inghilterra è in crescita e in Cina si sta sviluppando in maniera perfino imprevista, pur rappresentando percentuali minime rispetto all'immenso mercato. Le prospettive, però, sono difficili da individuare in questa situazione. Spero che nel giro di qualche mese, pur nel rispetto rigoroso delle regole, venga di nuovo apprezzata la convivialità».

Come avete trovato la situazione alla ripresa?
«Per ora ci sembra del 50% scarso. Non tutti ancora hanno aperto. Si riprenderà appieno con l'abbandono delle mascherine e con l'attenuazione della distanza, penso che sarà possibile entro fine giugno anche per consentire una ripresa del turismo. Abbiamo avvertito non tanto la paura, ma proprio la disperazione: i bar sono disperati, sono rimasti chiusi tre mesi. La gente ha bisogno di certezze, ha bisogno di tornare a fidarsi, di non correre rischi».
 
Ultimo aggiornamento: 11:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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