Balasso, Pennacchi, Musso e Artuso: giornata di "autoanalisi" per 150 attori

Domenica 9 Febbraio 2020 di Chiara Pavan
L'INVITO Più di 150 attori si ritroveranno lunedì al Teatro del Pane di Villorba invitati da Mirko Artuso
TREVISO Le domande sono «elementari», come osserva la narratrice Giuliana Musso, ma schiudono scenari epocali, tanto più adesso che gli artisti, ossia chi va in scena e ci mette la faccia, «non hanno più valore. Nè come gruppo, nè come categoria». Proprio per questo la “chiamata” dell’attore e regista Mirko Artuso, che lunedì 10 febbraio al Teatro del Pane di Villorba ha “convocato” gli amici colleghi a riflettere sul “Perché facciamo teatro... e per chi”?, ha riscosso subito un’adesione incredibile. Più di 150 persone - tra attori, registi e compagnie - hanno immediatamente risposto all’invito per una giornata di “autoanalisi” sulla professione, «segno che forse se ne sentiva l’esigenza» osserva Artuso.
IN ARRIVO
Tra i tantissimi che hanno risposto ecco appunto Giuliana Musso, pronta per la trasferta romana con il nuovo “La scimmia”, e poi Natalino Balasso, Andrea Pennacchi, la compagnia Anagoor, Edoardo Fainello, la Pantakin, Gianmarco Busetto, I Carichi Sospesi, Tam Teatro, Il Bresci, Fabo Sartor, Gianluigi Igi Meggiorin, Giancarlo Previati, Paola Brolati, Sandra Mangini, la Ailuros, Nina Zanotelli, Massimo Munaro, Giorgio Sangati, Filippo Tognazzo, Evarossella Biolo, Nicoletta Maragno, Giuseppe Emiliani, Michele Modesto Casarin. «Ho chiamato attori, compagnie, persone che “fanno” teatro, non tanto gli organizzatori - spiega Artuso -. Ho pensato a un momento di riflessione e di condivisione interno, dedicato proprio a chi vive di teatro portandolo sul palco. Faremo dei tavoli di discussione. La mattinasarà dedicata al “perchè”, il pomeriggio a “per chi”. Che per me è importantissimo. Anche come direttore artistico del Teatro del Pane: ho in gestione un luogo particolare dove è fondamentale ascoltare il pubblico, essergli vicino, capire cosa emoziona, cosa spinge a tornare».
L’OBIETTIVO
Nessuna apertura alle grandi istituzioni, tipo Stabile del Veneto o circuito distributivo Arteven, «la riflessione è interna a noi». Sopratutto perché, come osserva Giuliana Musso, «va rifondato il senso e il valore del nostro fare arte rispetto al ruolo che viene assegnato al teatro dal mondo. Il nostro operare è ostaggio di un sistema produttivo, organizzativo e distributivo senza il quale non possiamo esistere. Un sistema in cui gli artisti non c’entrano nulla, fatto di figure animate da altre finalità rispetto alle nostre». La speranza di Giuliana Musso, quindi, è di «aumentare la consapevolezza di categoria che porti a un nuovo patto di collaborazione con gli altri settori. Un patto che preveda il riconoscimento del nostro valore. Poi, per chi facciamo teatro io non ho dubbi: per tutti». Concorda Emanuele Pasqualini, della Pantakin: «Lo facciamo per la gente, ovunque si possa andare in scena. Certo, il pubblico è il grande interrogativo di adesso: fa bene ritrovarsi insieme, sentire che non sei solo, capire se la direzione che stai seguendo ha un senso».
“IL POJANA”
Il momento, dopo tutto, non è dei più facili, e Andrea Pennacchi - il velenoso Pojana di Propagana Live - ne è convinto: «Mi pare esista una grande confusione in giro: professionisti, amatoriali, e poi gli enti preposti a sostenere il mondo culturale. Manca metodicità, ed è tempo di parlarne insieme, coordinare le attività, stabilire le priorità. Per chi stiamo lavorando? Quanto vale il nostro lavoro?». Dopo tutto, «manca una visione d’insieme nel nostro mondo. Non bisognerebbe andare avanti come microorganismi individuali - fa eco Edoardo Fainello, dell’Accademia Teatrale Da Ponte - dobbiamo unire le forze per avere maggiore forza contrattuale». Certo, il teatrante nasce come «anarchico. Ma oggi ci ritroviamo con attori e compagnie in cui unico obiettivo è lavorare per lo Stabile, che è un organismo dichiaratamente politico». Poi c’è il rischio che uno spettacolo prodotto dallo Stabile non “circuiti” con Arteven causa dissidi interni ai due enti. «L’incontro, spero, ci aiuterà a capire dove andare - aggiunge Fainello - Anche per vedere cosa lasciare ai giovani che verranno». La speranza è quella di «esserci», tutti insieme «per entrare in un luogo, un teatro, e vedere se riconosco una famiglia - chiude l’attore Fabio Sartor. Non devono per forza essere fratelli e sorelle ma almeno cugini anche alla lontana, che risalendo un ideale albero genealogico riconosci. Per sentire se tutti loro avvertono il rischio di stare in scena senza rischiare. Sennò non vale la pena salirci su quel palco». 
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