Daniele Santarelli senza veli: «Io, il miracolo Conegliano e un vantaggio: mia moglie»

Lunedì 13 Giugno 2022 di Edoardo Pittalis
Daniele Santarelli con la moglie Monica De Gennaro

CONEGLIANO - Dice che già da bambino sognava di fare l'allenatore di volley femminile e che adesso, a 41 anni, vuole sempre fare lo stesso mestiere. Ha praticamente vinto tutto con la sua squadra, la Imoco Prosecco Doc di Conegliano, e gli hanno affidato pure una nazionale campione del mondo, quella della Serbia. In sette anni con le Pantere ha messo assieme: 3 scudetti, 3 Coppe Italia, 4 Supercoppe, il mondiale club 2019 e la Champions League 2020. Vanta un record di 76 vittorie consecutive, mai raggiunto nello sport mondiale. E in mezzo ci sono stati gli anni della pandemia. Decisamente per Daniele Santarelli i sogni non muoiono all'alba. «I sogni non muoiono mai, servono per trovare sempre la forza di realizzarli.

Conegliano per me è qualcosa di più profondo di un semplice lavoro. Ho costruito un rapporto speciale con la squadra, mi sento male nel momento in cui non riesco a regalare qualche gioia al pubblico. Per me Conegliano è casa. Lo è stata anche quando ha dovuto superare il dolore più grande, la morte del papà: mamma e mio fratello Massimo sono venuti a sostenermi e a far tifo per me e nel dramma ho ritrovato la forza per andare avanti».

Ma dopo aver vinto tanto, coll'Imoco siete arrivati alla fine di un ciclo?
«Al contrario! C'è la volontà è quella di costruire qualcosa di ancora più grande. Non mi sento alla fine di un ciclo, ma all'inizio. Voglio creare con loro una saga che possa durare molto più dei sette anni della favola attuale. Il futuro lo vedo roseo, è un cielo con i giusti paletti nei punti buoni, con molti giovani interessanti: è stato vinto il secondo scudetto consecutivo negli under 18, ci sono le basi di un movimento pallavolistico per il futuro».

Come ha fatto un ragazzino di Foligno ad approdare alla grande pallavolo?
«Sono cresciuto in una famiglia di impiegati, non sportivi. Papà Gualtiero lavorava alla Telecom, mamma Giuliana alla Olivetti. Ero io che cercavo lo sport giusto, quello adatto a me e li ho provati tutti: dal tennis al calcio, finalmente nella pallavolo ho trovato la dimensione. Erano tempi buoni per il volley: c'era la Nazionale di Velasco e, a Perugia, anche la forte squadra femminile della Despar. È stato semplice scegliere, quasi naturale, come avvicinarsi al Milan che allora vinceva tutto e che quest'anno mi ha reso felice. Mi sono accostato per divertimento e voglia di giocare, poi ho capito che per me poteva diventare qualcosa di più. Già da allora pensavo di vivere con lo sport, volevo fare l'insegnante di educazione fisica».

Come era Santarelli giocatore?
«Naturalmente come giocatore pensavo di poter arrivare, ho sperato, ho provato, ma Ero un libero, ho giocato in serie B a Legnago, a Terracina, anche a Vicenza e tanti anni a Foligno».

Cosa mancava per il salto di categoria?
«Pensavo troppo, ogni gesto era troppo importante per me. Avevo la testa non da giocatore che deve essere una persona libera da pensieri: valutare a ogni palla il pro e il contro era un grandissimo limite. Così ho pensato che se la mia testa era diversa da quella di un atleta, anziché il giocatore avrei dovuto fare l'allenatore, che quella era la mia vera vocazione. E a 28 anni ho smesso di giocare e ho iniziato solo ad allenare: ho fatto la gavetta a Pesaro e la mia vita è cambiata quando mi hanno proposto un contratto nello staff della squadra arrivata in serie A1. Ho incominciato a pensare in quella stagione che sarei potuto arrivare in alto, come avevo sempre sognato, e a metà stagione ho accettato l'incarico di viceallenatore in A 1 a Urbino. La svolta è venuta da assistente di Davide Mazzanti a Casalmaggiore: abbiamo vinto lo scudetto e a quel punto non ho avuto più dubbi».

Ma il volley femminile è stata una scelta precisa?
«Potrei dire che è più semplice lavorare, ma la verità che la prima vera chiamata importante è stata da parte di una società femminile ed era quasi obbligatorio continuare in quella direzione. Poi Conegliano mi ha dato l'opportunità enorme di diventare il capoallenatore, è stata un'esperienza di crescita e in questo momento rappresenta la mia vita. Nel libro che stiamo scorrendo abbiamo scritto pagine importanti, ma è solo l'inizio. Questa deve essere la società che scrive la storia della pallavolo italiana, come hanno fatto Bergamo e Ravenna».

È partita Paola Egonu: cosa cambierà? Difficile gestire una campionessa?
«Non cambierà molto, l'obiettivo è ripartire da zero e costruire un altro ciclo con alcune delle protagoniste della storia precedente. Per me Paola non è mai stata un problema, la gestione di queste campionesse è più semplice perché sono brave e devono essere ascoltate se le cose non vanno. È stato un privilegio avere Paola con me, ho avuto la fortuna di cogliere ogni secondo della sua bravura. La Egonu è indubbiamente in attacco la più forte che abbia mai allenato. Guardo così in alto e vedo che le ho allenate tutte: la Wolosz, la Fahr, la Folie, la De Gennaro e ».

La De Gennaro è anche sua moglie, un problema?
«La moglie campionessa non sarà mai un problema. È un enorme vantaggio averla con me, ha grande credibilità con le altre atlete, mi aiuta, mi suggerisce se sbaglio. Mai pensato per un secondo che Monica è un peso per me».

Il ricordo più felice di Daniele Santarelli?
«Il primo scudetto, alla prima stagione, avevo un anno di contratto e volevo dimostrare di meritare quel posto. Dal punto di vista personale era un momento difficilissimo, avevo perso papà a marzo. Ho ritrovato dentro le energie e ho sentito che qualcosa era cambiato. Mi sono tolto questo grande peso: non dovevo più dimostrare che potevo farcela».

E la storia del record mondiale di imbattibilità, 76 vittorie consecutive?
«Non pensavamo di dover battere il record, badavamo soltanto a migliorarci per poter provare a vincere tutto. È stata una cavalcata lunga, quando siamo arrivati così vicini a quel record allora ho pensato che si trattava di qualcosa di molto di più: era un modo di entrare nella storia dello sport. Ma poteva diventare una maledizione, ho incominciato a vederlo come un traguardo da raggiungere al più presto e, una volta battuto, è stata una sorta di liberazione. Questo stress di dover vincere a ogni costo non ci ha fatto bene, ma è stata una stagione irripetibile: tre trofei, un record mondiale, due finali perse d'un soffio».

Quanto ha influito il Covid?
«È stato uno dei momenti più difficili. Ci sentivamo i più forti di tutto, volevamo dimostrarlo e non abbiamo mai potuto vivere quell'annata come avremmo voluto. Abbiamo fatto grandi sacrifici per continuare ad allenarci evitando il contagio. Abbiamo vissuto segregati, tanti mesi quasi da reclusi e avevamo solo un modo per provare ad alleviare queste grandi sofferenze: crescere e vincere tutto. E nell'anno del Covid abbiamo vinto tutto. Grazie anche a un pubblico semplicemente il migliore, non ne esiste uno uguale».

Adesso è anche allenatore della Serbia
«In realtà sono qui da poche settimane, sto ancora realizzando che si tratta di uno scalone in più, di un grande passo avanti. Essere allenatore di un paese estero è motivo d'orgoglio, la Serbia del volley ha un passato glorioso, ma è profondamente cambiata. La mentalità è diversa dalla nostra, anche se siamo due paesi geograficamente molto vicini».

Perché il volley femminile non è popolare come quello maschile?
«Quello maschile riesce ad attirare di più, eppure quello femminile ha più iscritti, è lo sport col maggior numero di iscritti. Ma è proprio il volley che è cambiato tantissimo in questi anni: è molto più fisico, atletico, e un po' meno tecnico. Sono cambiate le regole e questo lo ha migliorato, reso più televisivo, meno monotono. Credo che ormai la fisicità sia diventata sin troppo importante, ma occorre fare un passo indietro per recuperare la tecnica che oggi è trascurata».

    
 

Ultimo aggiornamento: 17:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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