Giles, il fotografo senza gambe:
«L'arte? Si finanzia dal basso»

Venerdì 29 Maggio 2015 di Elena Filini
Giles Duley
TREVISO - Giles Duley aveva talento e copertine patinate. Fotografava la passione e il bello, sui grandi magazine della musica e della moda. Giles Duley aveva due gambe. Quelle che una mina in Afghanistan si è portate via. E aveva due braccia, ma il Dio dei giusti ha guardato giù e gli ha salvato il destro.



Così nel secondo capitolo della sua vita continua a fare ciò che faceva prima. Il fotografo. Ma con maggiore convinzione, con un'energia che si trasmette dagli occhi. Giles è a Fabrica per due giorni. Raccontare la sua vita e il suo modo di fare fotografia ai giovani del centro di comunicazione di Benetton. E sabato alle 10 (ingresso 15 euro) Duley presenterà al pubblico, attraverso una lecture in inglese e all'interno del progetto Photomasterclass promosso da Enrico Bossan con altri grandi fotografi della scena internazionale, un progetto di crowfounding davvero innovativo. Il "kickstarter".



Cos'è questo "kickstarter"?

«È un modo rivoluzionario di finanziare l'arte, in questo caso la fotografia, che viene dal basso e dalla rete. Un progetto che consente ad un fotografo di proporre progetti indipendenti unicamente finanziati dai singoli follower. Ognuno mette ciò di cui dispone».



Quindi il futuro dell'arte è il freelance?

«Il freelance non è indipendenza. La logica freelance depotenzia l'artista, lo mette al soldo del mercato e della proprietà. La modalità indipendente mette al sicuro le idee: di fronte allo stesso tipo di fragilità economica il primo sceglie di aderire ai desideri del committente, il secondo cerca una committenza in linea con i suoi desideri».



Cosa è successo in Afghanistan nel 2011?

«Ero al seguito di una missione americana a Kabul e una mina ha dilaniato il mio corpo. Ho perso gli arti inferiori e un braccio, ma mai la volontà di essere testimone del mio tempo. In questi anni qualcuno mi ha chiesto se mi sono pentito di aver fatto quel primo viaggio in Afghanistan, se valeva la pena di perdere le gambe per qualche foto. È una domanda stupida, perché ovviamente nessuna foto vale quel prezzo; però il principio sì. Saltare su una bomba e tutta quella sofferenza mi hanno confermato che andare in quei Paesi e raccontare quelle storie era, ed è, la cosa giusta da fare».



Perchè ad un certo punto della sua vita ha lasciato al fotografia di moda per sposare le cause di Emergency e Medecin sans frontières?

«Ho sentito la necessità di raccontare le persone e le loro storie. Ho sempre amato i ritratti, nella stessa misura in cui odiavo però i paparazzi. Diciamo che la fotografia estetica ad un certo punto non faceva più per me».



Che cosa insegnerà agli studenti di Fabrica?

«Davvero non lo so, dato che io sono stato un pessimo studente. Ma cerco li incoraggerò a credere nei loro sogni, a fotografare ciò che veramente amano e ciò che sa davvero catturarli, al di là degli stereotipi».



Ama ripetere che questo è un momento fantastico per la fotografia. Ne è davvero sicuro?

«Sì, credo che per la fotografia indipendente sia un momento d'oro. Le persone hanno bisogno di essere coinvolte in progetti direttamente. È una nuova frontiera: tutto il mondo può finanziare il lavoro di un artista. È un meccanismo economico nuovo e potenzialmente infinito».
Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 10:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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