Francesca Porcellato, la "rossa volante". La sua vita tra sacrifici e medaglie

Lunedì 8 Agosto 2022 di Edoardo Pittalis
Francesca Porcellato

Francesca Porcellato aveva 18 mesi e una capigliatura rossa come il fuoco del panevin e giocava con altri dieci bambini nell'aia della casa colonica a Poggiana, che è frazione di Riese Pio X, pianura sotto il Grappa.

Giochi di figli di contadini, bastano un coccio per disegnare sulla terra el campanon e una pietra piatta per occupare la casella. Era il pomeriggio del primo giorno di primavera del 1972, quando nell'aia entrò un camion col rimorchio carico di gasolio; il camionista fece manovra e investì in pieno la bambina gettandola a terra. «È stato un impatto frontale, mi ha preso dappertutto, si fa prima a dire cosa era rimasto sano: una gamba, le due braccia, la testa Molte cose erano riparabili e sono state aggiustate, non la lesione midollare alla spina dorsale. È stato un momento difficile, ma allo stesso tempo fortunato: un camion contro una bambina e non sono morta».


Francesca Porcellato, 52 anni, di Castelfranco Veneto, oggi è la più grande atleta paralimpica italiana, forse la più grande del mondo. Quindici medaglie, otto d'oro, alle Paralimpiadi tra giochi estivi e invernali. E in tre sport diversi: atletica, sci, ciclismo. Unica al mondo a riuscire nell'impresa. Ha corso cento maratone, ne ha vinto settanta. Sulla distanza vanta anche un record assoluto: 1h 38' 29.


 

In questi giorni è in Canada per i mondiali di ciclismo. Cosa ricorda della prima infanzia?
«Non ho ricordi del periodo dell'incidente. La nostra era una famiglia contadina: papà Giacomo, che non c'è più, coltivava campi e aveva una stalla a Poggiana, mamma Rita era casalinga. Ma ricordo che a 4 anni avevo difficoltà ad accettare che non potessi fare le cose come gli altri bambini: Franci le gambe non funzionano, mai fai tesoro di tutto il resto, mi hanno ripetuto i genitori. Le mie sorelle Flora e Silvana e mio fratello Sergio mi hanno sempre coinvolta nei loro giochi e trovavano sempre l'alternativa: sono cresciuta senza barriere mentali, mi portavano in bicicletta. Un giorno eravamo tutti e quattro in casa, di nascosto siamo andati a saltare nel lettone, mi tenevano in braccio a turno. Entravo e uscivo dagli istituti di riabilitazione, ci passavo mesi interi».


Come è andata con la scuola?
«All'inizio è stato difficile, ma dopo un piccolo rodaggio con i compagni è andato tutto bene: i bambini quando conoscono capiscono e vanno oltre. Più complicato con gli adulti, un'insegnante mi ha reso la vita impossibile, ha spostato l'aula al secondo piano, ma per fortuna i compagni mi sollevavano gradino per gradino. Avevo il mio carrellino col quale andavo per i campi, quando ho avuto la prima carrozzina ho pensato subito di farla andare più forte che potevo».


Poi si è diplomata in ragioneria?
«Sempre a Castelfranco. Mi accompagnava a scuola papà, i ragazzi di quinta si sono organizzati con una staffetta, a turno mi aspettavano e facevano un ascensore umano. Erano veloci, agivano quasi nell'ombra. Un giorno tutta la scuola ha fatto sciopero per chiedere uno scivolo. Qualche tempo dopo, lavoravo all'ufficio Anagrafe a Riese, un dipendente mi aggredì dicendomi che dovevo vergognarmi perché avevo soltanto fatto spendere soldi pubblici. Purtroppo quello scivolo non ha mai smesso di funzionare».


Quando ha deciso di diventare un'atleta?
«Già negli ultimi anni di scuola avevo fatto attività sportiva, mi sono licenziata e ho iniziato a dedicarmi totalmente allo sport. Volevo fare l'atleta professionista. E da lì è incominciata la mia seconda vita. Ho iniziato con i 100 metri, ma mi sono rimasti subito molto stretti e nel '92 sono approdata alla maratona e non l'ho più lasciata. Sono arrivata alle Paralimpiadi, ho vinto due titoli olimpici a Seul, mi sono riconfermata sul podio a Barcellona e da quel momento non ho mancato un appuntamento, ho partecipato a dieci edizioni».


 

Come è passata dall'atletica allo sci?
«È capitato, non l'ho cercato. Ero reduce da tre medaglie di Atene, ero entrata nel circuito mondiale delle maratone, viaggiavo tantissimo. Mi avvicinò il tecnico nazionale di sci, Alessandro Gamper, che stava preparando la squadra olimpica per Torino. Risposi che la mia vita era impegnata, lui ha insistito con gentilezza così ho provato a sciare quando è arrivata la neve e mi sono fregata perché ho scoperto una disciplina bellissima. A Torino 2006 sono arrivata ultima, ma con una certezza: quello era lo sport per me. Avevo quattro anni per vincere e a Vancouver ho conquistato la medaglia d'oro nel chilometro sprint. Con Gamper abbiamo vinto tutto. A curare la preparazione a secco era un tecnico che oggi è anche mio marito, Dino Farinazzo. Quando ci siamo conosciuti avevamo altre storie che sono finite, trent'anni ci siamo rincontrati, un allenamento tira l'altro e alla fine ci siamo scoperti innamorati. Io lo sceglierei di nuovo».


Infine, il ciclismo
«C'è stato un momento in cui mentre sciavo, a marzo toglievo gli sci e passavo alla maratona. Dopo Vancouver avevo la vita stravolta in senso positivo, l'oro pesa: per allenarmi per lo sci di fondo d'estate ho preso una bicicletta e non me la cavavo niente male; così il tecnico del ciclismo ha incominciato a chiedermi di correre per loro. Quando ho smesso con lo sci di fondo, è incominciata la mia terza vita».


15 medaglie paralimpiche, quanto pesano?
«Le ricordo tutte molto bene, sono figlie mie, dei miei sacrifici. Però Vancouver è nel cuore, è una scommessa vinta, è arrivata proprio il giorno dell'anniversario del mio incidente, il 21 marzo, che io considero un secondo compleanno. Con Vancouver sono riuscita finalmente a far capire ai miei familiari che quel giorno poteva portare anche cose belle. Poi, come dimenticare la prima medaglia a Seul! E quella d'argento di Atene vinta negli 800 metri, una gara che mi sfuggiva sempre Indimenticabile, poi, quando a Pechino sono entrata nello stadio Olimpico portando la bandiera italiana. Avevo realizzato il mio sogno, ero quella bambina in carrozzina che diceva di voler fare l'atleta e gli altri la guardavano con compassione. Mi ha spinto la passione per lo sport, la voglia di fare, la non paura della sconfitta».


La chiamano la rossa volante: le piace?
«Mi piace molto, me l'ha dato Paolo Mutton, un trevigiano, speaker di maratone. Mi vedeva passare il traguardo sempre sorridente e veloce, i miei capelli rossi. Aveva visto in me l'atleta non la disabile. Ho intitolato proprio La rossa volante il mio libro appena uscito e nel quale mi racconto e incoraggio le persone come me».


Il libro, scritto con Matteo Bursi, edito da Baldini e Castoldi (18 euro) ha la prefazione del presidente del Coni Giovanni Malagò. A che punto è il problema della disabilità in Italia?
«Sotto il profilo paralimpico va bene, gli atleti stanno raggiungendo risultati importanti, meno dal punto di vista della società. Il problema più urgente è quello dell'assistenza e della pensione di invalidità che è di 286 euro mensili! Se guadagni più di 16 mila euro lordi non ne hai diritto. Ogni anno mi chiamavano per vedere se camminavo! A un certo punto mi sono rifiutata di tornare. Ho fatto visite in cui mi sono trovata in mezzo a gente tra la quale io ero la meglio messa!».


Ha pensato di ritirarsi?
«Ritirarmi proprio no. Ho rallentato gli allenamenti, sono a fine carriera, ho 35 anni di attività sportiva. Certo l'età pesa, ci vuole la fortuna di mantenere la salute, noi che non camminiamo ce l'abbiamo un po' precaria, è tutto un grande equilibrio. Ma non mi ritiro dall'impegno per difendere i disabili. Tutti noi siamo potenziali disabili: le donne incinte, i bambini, gli anziani. Non è già una disabilità non riuscire a salire le scale?».

Ultimo aggiornamento: 16:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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