Alessandra Ferri danza "i giorni felici": «Su palco svelo me stessa ballando il presente»

Domenica 1 Maggio 2022 di Chiara Pavan
Alessandra Ferri in scena a Padova, Treviso e Venezia (foto Marco Brescia)

Il palcoscenico, per lei, è un «luogo sacro» in cui «mettere tutta me stessa, dove ti sveli, ti spogli». Non c’è nulla di più potente di quel momento magico che prende vita sul palco, una rivelazione che diventa arte pura, «dove un artista trascende se stesso e il corpo diventa spazio, energia, musica». Alessandra Ferri misura le parole con grazia, in cerca dell’espressione più adatta a raccogliere pensieri, ricordi e riflessioni su una vita nata e vissuta nel nome della danza. Guai parlarle di 40 anni di “carriera”, la parola non la riflette, meglio usare «vita artistica» perché la danza, per lei, è stata, ed è ancora, una vera vocazione, nata quando aveva solo tre anni. Pacata, riflessiva ed elegantemente distaccata, la ballerina italiana più famosa al mondo, etoile sia al Royal Ballet di Londra e all’America Ballet Theatre di New York, 59 anni a giorni (il 6 maggio), approda ora in tour allo Stabile del Veneto con “L’Heure Exquise” (4-5 maggio al Verdi di Padova, 7-8 maggio al Del Monaco di Treviso e 11-12 maggio al Goldoni di Venezia), variazione su “Oh, les beaux jours “(Giorni felici) di Samuel Beckett ideata da Bejart nel 1989 per Carla Fracci. Un nuovo ruolo per la grande bellerina che, da quando è tornata a danzare nel 2013, i più grandi coreografi hanno voluto disegnare parti esclusivamente per lei, come Wayne Gregor,  John Neumeier  e Martha Clarke, «tutti ruoli che mi rendono felice, perchè sono convinta che anche invecchiando siamo comunque essere splendenti. Tutti noi, non solo i ballerini».

E lei che rapporto ha col tempo?

«Il tempo e l’età non sono legati solo ai ballerini: tutti abbiamo un tempo. Il tempo è l’esperienza che facciamo. Ovviamente ognuno nella propria “tipologia” di vita. Il ballerino ha un rapporto particolare con il proprio corpo, che deve imparare a gestire nelle diverse fasi della vita. Poi ci sono cose che migliorano con il tempo e altre cose cambiano con il tempo. Questa vita è l’esperienza in generale che facciamno, un viaggio, e questo viaggio ha una sua durata».

La sua ballerina Winnie in L’heure Exquise ha un rapporto particolare con i “giorni felici”.

«Nella rielaborazione ideata da Bejart sul tema di “Giorni felici” di Beckett, Winnie vive nella sua malinconia solitudine i gioiosi ricordi dei giorni felici. È una donna sepolta dal tempo che passa, e nell’immaginazione di Bejart vive sepolta da una meravigliosa montagna di scarpette a punta, che stanno a rappresentare il suo passato, i sogni e le speranze che si trova ad affrontare. Per non affondare nell’angoscia del tempo, Winnie ricorda e si immerge nei suoi “giorni felici”».

La danza per lei non è mai stata carriera o un lavoro, ma vita.

«Ma per molti ballerini è un lavoro, per me è la vita, è chi sono. Così lo era per Carla Fracci: per alcuni di noi la danza è una vocazione, una missione. Ma ci sono anche migliaia di ballerini che danzano per lavoro, che staccano la sera e riprendono il giorno dopo».

Lei ha interrotto per sei anni e poi ripreso: è stato difficile?

«Non vedo la vita come “difficile”, la vita la vivo, ne sento i momenti diversi. In quel momento era giusto interrompere, poi ho sentito che era il momento di riprendere. Certo, ci sono state alcune difficoltà pratiche, che capitano a tutti noi. Chiaro che fisicamente, per un alteta, non sia semplice: ci vogliono forza di volontà, impegno, dedizione, tanta determinazione».

Mai un momento di relax totale?

«Sono davvero molto pochi».

Ha due figlie grandi ormai: hanno mai pensato alla danza?

«Mai, neanche per sogno... Forse una bastava in famiglia».

Lei ha avuto incontri straordinari, da Bejart a Barysnikov, Petit. Cosa le hanno insegnato?

«Ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa. Ad esempio, quando ballavo con Baryshnikov ero molto giovane, avevo 21 anni, mentre lui era all’apice della carriera. E solo guardandolo, solo vedendo quanto lavorava, toccavo con mano cosa significa avere talento: senza l’amore per il proprio talento non si è nulla. È il lavoro che serve, e lo vedi nei grandi ballerini, che lavorano tantissimo».

E Wayne McGregor, ora direttore della Biennale Danza?

«Lui è un grandissimo coreografo dei nostri tempi. È sempre avanti. O semplicemente tutti gli altri ...stanno indietro».

Cosa è il talento di un ballerino?

«Tantissime cose messe insieme: è lavoro, è intelligenza, umiltà, e ovviamente anche doti fisiche, è chiaro. Tutte componenti che messe insieme creano la situazione ideale per far sì che tu possa liberare quest’espressione interiore attraverso il corpo».

E il corpo?

«E’ uno strumento attraverso il quale esprimo la mia anima, la mia interiorità, rivelo il mio essere. Sono un tutt’uno, un tutt’uno per anima e corpo: questa è un’esperienza unica per i ballerini che lo sublimano rendendolo arte, ma è strumento per tutti noi: attraverso le sensazioni che il nostro corpo ci dà, possiamoiscoprire la nostra parte più profonda».

Dopo tanti anni, il palcoscenico dà ancora trepidazione prima di salirci?

«È un luogo sacro dove tu metti tutta te stessa. Ti riveli, ti spogli, si sveli. Quindi ogni sera non puoi mai sapere come sarà, devi avere sempre la trepidazione, non siamo macchine. Quello che impari a fare, con l’esperienza, è avere fiducia nel momento, ogni volta la fiducia di sentire il momento, essere presente in quel momento».

E il pubblico? Aiuta?

«Si crea un campo energetico con il pubblico, ma in realtà sta a te creare l’energia, l’essere presente.

Una volta ha detto che la danza le ha insegnato a occuparsi del presente.

«Sì, perchè ogni giorno è un giorno nuovo e devi essere presente quel giorno lì. Ogni giorno mi rifletto e imparo attraverso la danza. La danza mi ha insegnato il rispetto: il rispetto del talento, degli altri, la concentrazione, la focalizzazione e quindi sì, il presente. Bisogna impararlo».

Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 16:29

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