Nordio e l'amico Filippini: «Cibo, arte e amicizia, quel ragazzo di bottega creò una piccola Atene»

Venerdì 17 Aprile 2020 di Valeria Lipparini
Nordio (seduto) e Filippini
TREVISO Il magistrato e il ristoratore. Due uomini, due storie, due universi che si direbbe procedano su binari paralleli senza incontrarsi mai. Invece il magistrato Carlo Nordio e il ristoratore Arturo Filippini hanno riscritto le regole del gioco. E sono diventati amici. Di quell'amicizia che il lungo scandire del tempo rende forte e solida. Ora il Covid si è portato via l'uomo che ha trasformato la ristorazione povera veneta in una sciccheria gourmand da esportare nel mondo intero. E con El Toulà, declinato in 23 location distribuite tra Pechino, Toronto, Helsinki, Montecarlo, Tokyo, ha parlato la lingua dell'italian style. «La mia famiglia, nelle occasioni speciali, frequentava il ristorante da Alfredo. Arturo era il ragazzo di bottega e io ero poco più di un bambino, Poi, sono tornato da lui quand'ero liceale e a Treviso giravano Signore & signori perché volevo vedere, con gli amici, il regista Germi e le attrici che andavano lì a mangiare. L'ho scelto quando mi sono sposato, per il ricevimento. Ed è diventato un posto del cuore. Arturo mi ha visto crescere».
Com'è nata la vostra amicizia? «Quando ho cominciato ad essere il magistrato di Mani Pulite lui mi diceva che ero diventato famoso e davo lustro al locale. Abbiamo assistito allo sgretolarsi di un certo potere. Ed era allora che mi incitava ad entrare in politica. Ma è un mestiere che non saprei fare e così sono rimaste chiacchiere. Ma la nostra amicizia cementava le basi».
Un ricordo di quei tempi?
«La foto di lui in mezzo a me e all'ex procuratore capo Labozzetta come se fosse ammanettato. L'ho vista esposta nel bar del ristorante fino a qualche anno fa. Adesso la foto che mi parla di lui è stata scattata da Daverio poco tempo fa. Lui è dietro di me che mi appoggia le mani sulle spalle. E' triste sapere che non c'è più».
Parlava mai dei ristoranti El Toulà sparsi nel mondo?
«Era un uomo generoso, ma schivo. Tutti sapevamo quando apriva nuovi locali all'estero. Ma lui si schermiva. E ci rispondeva Casa mia è qui, a Treviso. Lui che era nato nell'Oltrepò pavese, si era fuso perfettamente con il nostro ambiente. Da lui è passata la piccola Atene trevigiana. E quando ne parlava non c'era rimpianto nella voce. Guardava avanti ad altri traguardi, altre sfide da vincere».
Ha mai sperimentato ricette nuove con lei?
«Mai, da lui si mangiavano i piatti della tradizione, risi e bisi, bollito, le zuppe, radicio e fasioi. Quando ci invitava a casa sua, la moglie cucinava pollo in umido ed era una sinfonia di odori e sapori. Mangiavano e chiacchieravano, donne rigorosamente divise dagli uomini».
Cosa le piaceva di Arturo?
«La sua ricchissima umanità, l'ironia, la generosità. Quando scovava qualche bottiglia di vino pregiato telefonava a me e a qualche amico intimo, come Polegato (il signor Geox) o Rapizzi, l'ex primario di oculistica. E le divideva con noi. Parlavamo in dialetto, tutti quanti. E facevamo le ore piccole».
Cosa le mancherà di Arturo Filippini?
«Sapere che non c'è più è un male quasi fisico. Avevo parlato con la famiglia e sembrava che la fase acuta fosse stata superata. Quindi non me l'aspettavo. Eppure, penso a lui, che andava a mille. Non sarebbe stato capace di frenare, di vivere a metà. Mi consolo così, penso che quell'embolia gli abbia risparmiato una lenta agonia. Lui, fiero della sua vita e della sua famiglia, è morto con i suoi ricordi intatti».
 
Ultimo aggiornamento: 16:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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