Chipilo, quel paesino del Messico dove si parla veneto, si mangia polenta e non si dice "adios", ma "se vedon"! Foto

Venerdì 5 Agosto 2022 di Edoardo Pittalis
Matrimonio tra veneti a Chipilo nel 1939
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Chissà se sapevano dove erano diretti quando a Genova sono saliti a centinaia sulla nave Atlantico che doveva portarli nelle Americhe. Quaranta giorni di macchina a vapore, come le bestie ci tocca a riposar, diceva la canzone. Ma non sapevano in quale America lontana e bella sarebbero sbarcati. Forse pensavano di andare in Brasile e invece erano finiti in Messico, che ignoravano dove fosse. Era l'autunno del 1882. Il Piave aveva un'altra volta fatto danni enormi nelle campagne dell'alto Trevigiano, la terra era nascosta da tre metri d'acqua. Nuova carestia e vecchia pellagra. L'emigrazione era allora la sola alternativa alla miseria.

Negli ultimi vent'anni dell'Ottocento se ne erano andati 950 mila veneti; famiglie numerose, otto, dieci figli.


Famiglie di bisnenti, gente che possedeva due volte niente. I veneti erano particolarmente ricercati, come spiegava un rapporto consolare: È instancabile, tranquillo, remissivo, morigerato, poco esigente, difficilmente sindacalizzabile, restio all'organizzazione a fine di resistenza. In quell'autunno le quasi 600 persone della nave scaricate dai mercanti di braccia in un golfo messicano erano tutte venete e venivano in gran parte da Segusino e dalla frazione di Stramare, i restanti da Quero, Valdobbiadene, Alano di Piave, Volpago del Montello, Pederobba, Cornuda. Tra loro, sulla nave trentotto capifamiglia che non sapevano scrivere avevano messo una croce sotto un contratto che li legava al Governo messicano: il presidente Porfirio Diaz prometteva terra e bestiame da pagare in dieci anni. Voleva modernizzare l'agricoltura, ma soprattutto risolvere il problema indigeno colonizzando le terre con contadini europei e bianchi.

La foto ricordo della classe 1929 a Chipilo


Emigranti veneti


Così i veneti, molti biondi e occhi chiari, presero la strada che portava al nord del Paese, decine e decine di chilometri da fare a piedi. Fino a un altopiano sui duemila metri, molto distante da Città del Messico. Trovarono soltanto i resti di una hacienda abbandonata che chiamavano Quitacalzones, strappamutande, perché i banditi da quelle parti spogliavano letteralmente i viaggiatori. Lassù c'erano 600 ettari incolti da assegnare agli emigrati e, dopo una messa all'aperto, il giorno 7 ottobre 1882 fu fondata la colonia Fernàndez Leal. Gli emigrati veneti, isolati e costretti ad arrangiarsi, conservarono intatte la lingua e le abitudini alimentari e contadine, fecero pane e polenta, formaggio e burro. Si organizzarono e impararono a commerciare i loro prodotti a Puebla creando una vera e propria tradizione casearia, imponendosi come fornitori del burro e col tempo anche come gelatai. Più tardi pure come falegnami.

Chipilo, il paese dei veneti in Messico

Decisi a difendere a ogni costo quella che poteva considerarsi anche una loro autonomia, tanto che in piena rivoluzione messicana - quando nel gennaio 1917 quattromila uomini armati al comando di Emiliano Zapata cercarono di occupare la colonia e di fare razzia, gli abitanti nascosero donne e bambini e si asserragliarono dietro la montagna che sovrasta il paese. I piccoli contadini resistettero, inflissero perdite ai rivoluzionari che decisero che quel paesino non valeva tanti morti e se ne andarono. Mesi dopo il presidente del Messico, Venustiano Carranza nominò generale il capo della resistenza, il veneto Giacomo Berra Zancaner che morirà quasi centenario.

La squadra di baseball di Chipilo negli anni '50

Il periodo fascista e il masso arrivato dal Grappa

Da allora il paese incominciò a chiamarsi Chipilo de Francisco Javier Mina, poi semplicemente Chipilo. E l'altura dei difensori prenderà il nome di Monte Grappa, come quella che nello stesso periodo si copriva del sangue di fanti, artiglieri e alpini nella Grande Guerra. Sarà il Fascismo qualche anno dopo a ricordarsi di quel pezzo d'Italia oltre Atlantico. Mussolini nel 1924 cavalcò un'idea di D'Annunzio, finanziò il viaggio della nave Italia che portava nelle Americhe una missione di artisti, giornalisti, militari, politici per rafforzare i legami con i milioni di emigranti. A guidare la numerosa delegazione era il veneziano Giovanni Giuriati, presidente del Consiglio superiore dell'emigrazione. Giuriati a Chipilo parlò in veneto con gli abitanti, promise e fece mandare un macigno del Grappa nel quale molti anni dopo sarà incastrata una statua della Madonna. Svolse il compito che gli era stata affidato: i giornali del regime avrebbero raccontato con enfasi che a Chipilo erano nati un Fascio italiano, una Casa Italia e una banda intitolata al re. Diceva il grande Andrea Zanzotto: Trovo nei chipilegni una febbre vera e autentica.


Chipilo e il gemellaggio con Segusino

Poi di Chipilo non parlò più nessuno, fino al 1970 in occasione dei mondiali di calcio in Messico, era la Nazionale di Riva e Rivera. Qualche inviato si spinse fino a Chipilo per scoprire che si parlava lo stesso veneto dell'altro secolo tramandato di padre in figlio, che si facevano lo stesso formaggio e la stessa polenta di un tempo. Per riscoprire il passato di Chipilo ci sono voluti il centenario della fondazione e il gemellaggio con Segusino, il paese dal quale era partita la maggioranza delle famiglie. Il contatto con le origini ha riacceso il ricordo, ha ridato un orgoglio che altrimenti sarebbe appassito. Oggi Chipilo è un paese di quattromila abitanti, dove i due terzi parlano veneto e dove i lampioni hanno disegnata la bandiera italiana. Dove l'elenco telefonico è ricco di cognomi come Barbisan, Berro, Mioni, Montagner, Précoma, Zago, Zoletto. E non dicono adios per salutarsi, ma se vedòn. Studiosi veneti e studiosi messicani hanno collaborato per comporre, più che scrivere, un bel libro Proverbi de confin con sottotitolo Detti popolari tra Prealpi venete e Altopiano messicano. Di confine perché Segusino è l'ultimo comune della provincia di Treviso salendo il Piave e il primo che si incontra scendendo dal Bellunese.


Proverbi veneti


A mettere insieme questa singolare antologia di proverbi e del parlare popolare, il parlar par patùa, è stato Mariano Lio, di Segusino, che da decenni raccoglie usi, costumi, storie, oggetti e dialetto. Si è avvalso della collaborazione di Flavia Ursini, docente di linguistica all'ateneo di Padova, e di Eduardo Crivelli Minuti docente all'università di Puebla. Dal veneto ogni parola è stata tradotta in spagnolo e il processo ha subito la strada inversa. A chiudere anche un prezioso glossario. Il libro è edito dalla casa editrice Antiga attenta al recupero del patrimonio veneto. Il proverbio è cultura antica, saggezza popolare; questo libro mette assieme 750 modi di dire divisi tra consigli, avvertimenti, rimproveri, informazioni, critiche, consolazioni. Esempio di consiglio: Fèmene e cavai no se presta mai. Di rimprovero: Scolta e tasi. Di consolazione: Sbàlia anca l prète su l'altar. Il confronto con lo spagnolo è straordinariamente efficace, è il frutto di una popolazione che ha mescolato la sua eredità veneta con valori spirituali e nuovi modi di dire acquisiti in Messico. Chi scambia, cambia, diceva il sociologo UIderico Bernardi. E la storia di Chipilo ne è la dimostrazione.

Ultimo aggiornamento: 6 Agosto, 11:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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