È veneto lo chef preferito dal Vaticano: «Ecco il mio menù servito a tre Papi»

Lunedì 12 Agosto 2019 di Edoardo Pittalis
Sergio Dussin. È veneto lo chef preferito dal Vaticano: «Ecco il mio menù servito a tre Papi»
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Il trevigiano Sergio Dussin, 62 anni, tre ristoranti, 40 dipendenti, tre milioni e mezzo di fatturato è lo chef preferito dal Vaticano «Quando mi chiamano sono sempre pronto: Wojtyla amava gli asparagi, Ratzinger non vuole funghi e Francesco mangia tutto».

L'INTERVISTA
«Wojtyla amava gli asparagi, in tutti i modi. Ratzinger non mangia funghi e non beve vino, ma non può mancare la torta Sacher. Francesco non ha problemi, mangia di tutto, mi è capitato di portargli anche la pizza».
Sono pochissimi quelli che possono raccontare di aver cucinato per tre Papi e di continuare da 17 anni a servire i pranzi in Vaticano. Per molti mesi metà dei giorni il Cuoco dei Papi li trascorre a Roma. Sergio Dussin, 62 anni, di Fonte (Treviso), tre ristoranti, 40 dipendenti, tre milioni e mezzo di fatturato, tre figli, due già impegnati nell'attività di famiglia. Dice che ogni volta che lo chiamano da Roma si sente domandare: «Se lei è libero».
 
E lei come risponde?
«Certo che sono libero! È impagabile per un cuoco servire i pontefici. A Giovanni Paolo II una volta feci gli auguri per la sua salute, mi prese il braccio e mi disse: Io prego per la tua. Papa Benedetto è un grande, non ha mai cambiato il suo modo di comportarsi e di governare e adesso dà un altro esempio importante: quello di non giudicare. Francesco è partito alla grande veramente, poi ha scoperto le difficoltà del Vaticano. Ogni volta che mi vede si ferma a parlare, s'informa, lui non tiene a distanza le persone».
Come è incominciata la sua avventura in Vaticano?
«Avevamo appena acquistato la Villa Razzolini Loredan ad Asolo, si prestava a eventi e matrimoni. Nel 1998 l'Opera Pontificia Pellegrinaggi ci ha chiesto di farne la sede per il Triveneto per il Giubileo del 2000 e per ospitare i pellegrini diretti a Roma. È venuto monsignor Camillo Ruini a inaugurarla. Qualche anno dopo sono andato a portare gli asparagi di Bassano alla Guardia Svizzera per la festa del 6 maggio che ricorda i 147 alabardieri che si fecero uccidere per salvare il Papa durante il Sacco di Roma. L'anno dopo ci richiamarono all'Accademia Pontificia delle Scienze e il rettore ha apprezzato la qualità del servizio e la velocità del nostro lavoro. Così è incominciata».
Dal Monte Grappa a San Pietro
«Una cosa impensabile per uno che viene da una famiglia contadina. Mio papà Antonio era stato prigioniero in Germania ed era tornato dopo la guerra per emigrare cinque anni in Australia dove sono nati due dei miei quattro fratelli. Ha sposato mia madre Emilia che ha appena compiuto 94 anni per procura e lei lo ha raggiunto dopo un viaggio in nave di 40 giorni. Papà ci ha dato molto sotto l'aspetto del rispetto delle regole, del voler bene alla gente: ci ricordava sempre che nel campo di concentramento il rispetto per l'essere umano non esisteva. È tornato dall'Australia perché i suoi genitori avevano bisogno di assistenza ed è rimasto con loro fino alla morte della nonna. Dopo la scuola noi figli andavamo a fare i contadini. Avevo finito le medie, quando un giorno mio padre tornando da Breganze, dove era andato a sistemare la testa del torchio per la vendemmia, si è fermato nella trattoria della Mena dove cercavano un cameriere. Ho incominciato a lavorare il 3 settembre 1972 e ho avuto come maestri due grandi cuochi che mi hanno insegnato tutto quello che so: che il cibo ti parla, che non devi prendere paura nemmeno se ti arrivano 300 persone perché una soluzione si trova sempre».
Come era in quegli anni il lavoro di cameriere in una trattoria vicino a Bassano?
«Prendevo 35 mila lire al mese, e di mance tre volte di più. La signora Filomena, la Mena, mi ha insegnato la contabilità e la cura del cliente e l'umiltà, non mandava mai via le persone povere e sole, offriva il pranzo. Lo faccio ancora oggi: non c'è niente di più triste che vedere a Natale uno a tavola totalmente solo. Ho fatto il servizio militare da cuoco nella Brigata Julia, tra gli Alpini, in Friuli. Una volta congedato, per un anno ho lavorato come operaio perché allora avevo una fidanzata che pensava che la fabbrica garantisse il futuro; mi spostavo con la mia Moto Morini Corsaro 125. Finito l'amore, sono tornato dalla Mena non più come dipendente, ma come socio al 25 per cento e ci sono rimasto fino al 1986 con la possibilità di gestire il ristorante e di aiutare nell'albergo. Ma davanti a un nuovo cambio sociale, ho preso il Pioppeto sempre a Romano da Ezzelino, era il 1988 ed è incominciata la mia storia nel campo della ristorazione. Con mia moglie Manuela abbiamo trovato ad Asolo la villa di fine Seicento. In questo modo i locali sono diventati tre, oltre al Pioppeto e alla Mena che nel frattempo avevo rilevato».
Non solo cucina, anche campi di calcio?
«Ho fatto l'arbitro di calcio fino alla serie C e ho girato l'Italia, ho diretto la Primavera di Milan e Juventus e la finale nazionale Allievi. Ho visto giovani giocatori che poi sono diventati famosi, da Francesco Guidolin a Paolo Rossi. Ero amico di Gigi Agnolin, per me il più grande arbitro. Gli ho dedicato un piatto che resta in menu: formaggi del territorio con confetture della casa e miele».
Le piace che la chiamino il cuoco dei Papi?
«Ho conosciuto Giovanni Paolo II negli ultimi anni del pontificato. Benedetto XVI anche per l'anniversario dei 60 anni del suo sacerdozio; quando si è dimesso, nel febbraio 2013, eravamo in Vaticano e durante il vuoto si respirava un clima difficile da descrivere. Con Papa Benedetto ci siamo visti spesso. Con Francesco, specie nella prima parte del pontificato, era impossibile girare a Roma da quanta gente c'era: con lui abbiamo preparato il primo pranzo dei Poveri il 7 novembre 2017 per 1500 persone. Abbiamo servito pasta con pomodoro e formaggi veneti, bocconcini di vitello con polenta di Marano, broccolo di Bassano gratinato e il tiramisù, duemila porzioni di tiramisù, anche per le Guardie Il Papa girava tra i tavoli, si fermava, parlava con tutti». 
Il momento più difficile?
«Continuiamo ad andare spesso in Vaticano per gli eventi, pochi giorni fa abbiamo preparato il pranzo per l'Università Gregoriana, 650 persone; e prima ancora quello per i Nunzi Apostolici. Ricordo con particolare emozione la Preghiera per la Pace del giugno 2014 con Shimon Peres e Abu Mazen. Una volta c'era la regina Silvia di Svezia con un braccio fasciato, l'aiutavo a tagliare la carne. Ma la cosa più difficile da affrontare è stata avere a tavola 390 persone di diverse religioni, tanti modi diversi di mangiare, tante esigenze religiose da rispettare. Ma ciò che conta molto è il tempo, hai 50 minuti dall'antipasto al dolce. Uso sempre posate d'acciaio, piatti in ceramica, bicchieri in vetro».
Una ricetta e un menu del cuoco dei Papi?
«Sono un po' amante del risotto di tutti i generi. Ho un mio metodo per farlo: scaldo il riso con olio d'oliva extravergine, ci metto dentro il brodo, l'ingrediente principale di cottura (asparago, fungo, radicchio, pesce). Quando mancano 4 minuti al termine della cottura, tolgo il riso e ci metto parmigiano e olio. Niente burro. Quanto al menu, eccolo: antipasto leggero; primo piatto risotto come partenza o una pasta fatta in casa, bigoli, tagliatelle con sughi semplici; carne, tagliata di manzo o filetto di vitello. Il dolce: ho la passione per la Meringa del Grappa, creata nel 2014 per l'anniversario della Grande Guerra: meringa classica, sopra panna montata con gocce di cioccolato e gocce di grappa. E vini veneti. Uso prodotti stagionali e solo freschi, quest'anno ho consumato 70 quintali di asparagi di Bassano. Non bisogna lasciarsi travolgere dalle mode, come accade con tutti questi chef in tv: la tradizione ci porterà fuori da qualsiasi momento difficile, non dobbiamo perdere la nostra identità».
Edoardo Pittalis
Ultimo aggiornamento: 13:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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