«Mi chiamo Matteo, sono cattolico e gay. Per troppi anni ho avuto paura di dirlo»: confessione durante la veglia

Le parole pronunciate dal 31enne di Fossalta di Piave durante la cerimonia contro l’omofobia celebrata nella chiesa di San Giuseppe a Treviso

Domenica 21 Maggio 2023 di Mauro Favaro
Marco Tamai 31 anni dell'Azione cattolica

FOSSALTA DI PIAVE - «Mi chiamo Matteo, ho 31 anni, abito a Fossalta di Piave e sono un ragazzo gay. Quanto è liberatorio poter esprimere il proprio orientamento sessuale». Sono le parole pronunciate da Matteo Tamai alla veglia contro l’omotransfobia celebrata venerdì nella chiesa di San Giuseppe a Treviso e contemporaneamente nelle chiese del Sacro Cuore di Mestre, Santa Sofia di Padova e San Carlo di Vicenza.

Fazzoletto dell’Azione Cattolica al collo, Matteo è salito sull’altare e ha raccontato le difficoltà incontrate negli anni. Non ci poteva essere occasione migliore dell’iniziativa pensata proprio per accogliere in chiesa, dopo anni di muro, anche i gruppi Lgbtqia+ cristiani, a lungo bollati come peccatori. «Spesso noi cristiani abbiamo la tendenza a credere che chi abbia una vita diversa dalla nostra sia qualcuno da escludere – è stata l’introduzione della veglia – e pensiamo che questa sensazione di esclusione dentro l’ambiente della Chiesa molte persone della comunità Lgbtqia+ l’abbiano provata».

La preghiera per arginare le violenze e le discriminazioni legate all’omotransfobia è partita proprio da qui.
Matteo Tamai, quanto è importante questa apertura della Chiesa?

«La veglia è stata importante per la nostra diocesi perché qui è stata la prima iniziativa del genere. Quando c’era l’occasione per parlarne in maniera tranquilla, la questione è stata sempre rimandata. C’è tanta paura a mostrarsi e a dire la propria opinione. Specialmente su tematiche delicate».

E’ stato difficile arrivare a esternare l’orientamento sessuale senza paure?
«Fino ai 26 anni non riuscivo a esplicitarlo per paura di essere giudicato e a causa di persone sbagliate incontrate nel mio percorso di vita. Avrei potuto accettarmi già a 20 anni se avessi vissuto in un contesto accogliente o in cui si affrontava l’argomento dell’omosessualità in maniera pacifica».

Non è andata così.
«Purtroppo no. Nel 2013 nel mio vicariato si fece un incontro di rete sull’omosessualità in cui c’era un uomo che si riteneva “guarito” da quest’ultima e una psicologa che affermava che fosse una malattia da cui si poteva guarire e promuoveva terapie riparative».

Si era poi rivolto a lei?
«Ero molto fragile anche perché la mia adolescenza era stata travagliata dal cyberbullismo. Sono stati così ingenuo da credere in quelle parole. Rimasi sotto la sua terapia riparativa per circa 3 anni. Mi diceva che le pulsioni che avevo verso gli uomini le dovevo reindirizzare in qualcosa di creativo».

Come andò?
«Alle prime credevo che funzionasse. Ma poi nel 2015 mi innamorai di un ragazzo incontrato in Azione Cattolica a Treviso, dove facevo volontariato. Talmente tanto che non ci capii più niente e volli interrompere la terapia nei primi mesi del 2016. Le pulsioni verso di lui si fecero sempre più frequenti perché finalmente c’era qualcuno che mi voleva bene dopo anni di sofferenza, ma mi vergognavo ad averle e volevo che non ci fossero».

Qual è stata la reazione? 
«Stavo finendo un corso di affettività e sessualità ad Assisi. La suora che mi seguiva, quando seppe che ero innamorato, mi diede il contatto di un altro psicoterapeuta. All’inizio ero titubante. Ma poi lo chiamai: fu il primo a dirmi che l’omosessualità è una variante naturale del comportamento umano. Non volevo crederci. Nel mio piccolo contesto non conoscevo nessuna persona omosessuale che potesse darmi una mano ad accettare la cosa».

Nel frattempo aveva fatto coming out?
«Solo con il ragazzo incontrato in Azione Cattolica. Avevo paura che nel mio paese la mia famiglia venisse giudicata a causa del mio orientamento sessuale e che tutti dicessero a mia madre: poverina che ha un figlio gay. O a mio fratello nel frattempo diventato prete: povero che ha un fratello gay».

Come si sono sviluppate poi le cose?
«Ho fatto coming out con mia madre davanti al mio psicoterapeuta, perché ero sicuro che se glielo avessi detto da solo non mi avrebbe creduto. Sicuramente non posso smontare anni di insegnamento di religione con poco tempo in cui ho affermato il mio essere me stesso. Non le do alcuna colpa: è vissuta purtroppo in un contesto in cui si dava per scontato che nella vita bisognava sposarsi e avere dei figli, e dove tutte le altre vite sterili erano considerate di serie B o meno ricche di valore. Ricordo che avevo anche raccolto un libro di testimonianze Lgbt cristiane per dimostrare che non ero solo io a vivere questi sentimenti».

Come vive oggi? 
«Da maggio del 2017 ho cominciato a frequentare l’Arcigay di Padova. Oggi mi sento una persona più libera e spontanea. Non ho quasi più paura di dimostrare i miei sentimenti verso le persone. Certo, non sarò mai fecondo come viene inteso principalmente nella forma del poter generare una vita, ma posso dire che sto cercando di donare fecondità nel cuore di ognuno che mi ascolta. Perché l’ascolto e il dialogo sono gli strumenti più adatti per migliorare tutte le forme di amore presenti in ciascuna comunità. Non c’è amore di serie A e di serie B, c’è solo amore».
 

Ultimo aggiornamento: 15:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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