Luciano, il veneto nella scorta di Falcone: «Salvo solo perché quel giorno cambiai il turno»

Lunedì 17 Giugno 2019
Luciano Tirindelli, il veneto nella scorta di Falcone: «Salvo solo perché quel giorno cambiai il turno»
«Giovanni Falcone era un uomo allegro, intelligente, attento a tutto e preciso, molto preciso. La sua passione era il lavoro, usciva presto per andare nel suo ufficio blindato al primo piano del Tribunale di Palermo e ci restava fino alla sera, quando passava a prendere la moglie per la cena con gli amici. Non rinunciava al nuoto, d'inverno andava nella piscina olimpionica coperta, ed era un nuotatore bravissimo. Il suo rapporto con la scorta era di fiducia assoluta e di rispetto reciproco». Luciano Tirindelli, 56 anni, nato a Treviso, faceva parte della scorta Falcone. Si è salvato soltanto perché il suo amico Antonio Montinaro gli aveva chiesto di cambiare il turno: «Ho figli piccoli, ho bisogno di fare straordinari». Così quella sera del 23 maggio 1992, sull'autostrada per Capaci, Luciano non c'era. Con Falcone  morirono la moglie Francesca Morvillo e tre agenti: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. 
Dopo essere andato in pensione, due anni fa Tirindelli ha costituito l'associazione Scorta Falcone QS15, che era la sigla radio per identificare il giudice: rappresenta sia i capiscorta, sia gli uomini che sono rimasti vivi. Gira le scuole italiane: «Per far conoscere la storia agli studenti. La strage di Capaci rimarrà un momento indelebile nella memoria degli italiani perbene».
Cosa ha provato quel giorno?
«Mi ricordo i funerali, una grande confusione, c'era rabbia verso i politici e anche contro il capo della Polizia. Una massa enorme di gente gridava PagliacciBuffoni dentro la chiesa di San Domenico e la vedova di Schifani pronunciò parole fortissime. Io ho portato sulle spalle la bara di Montinaro, poi sono andato a casa di Sammarco a farci compagnia, eravamo come fratelli. Il lunedì saremmo dovuti partire tutti con Falcone che aveva ottenuto di avere la sua scorta anche a Roma».
Perché un ragazzo trevigiano ha scelto di fare la scorta a un giudice antimafia?
«Avevo una madre siciliana di Trapani e un papà veneto. Mio padre faceva scarpe ed era nell'isola per commerciare in calzature, quando ha conosciuto mia madre in una sala da ballo. La mia vita si è divisa tra il Veneto e la Sicilia, è stato il nonno ad avere l'idea di farmi presentare una domanda per l'arruolamento in Polizia, nel 1983, e due anni dopo sono partito dalla Sicilia per Roma a bordo della mia motocicletta, una Honda Africa, la prima Honda Induro, ci ho girato l'Italia. Io sono nato a Treviso, ultimo di tre fratelli. Allora mamma Angela gestiva una trattoria a Ponte della Priula. Sono stati i nonni siciliani ad allevarmi dopo che mia madre, quando avevo un anno e due mesi, si era immersa nella vasca da bagno, è rimasta stordita dalle esalazioni dello scaldabagno difettoso ed è morta affogata in un palmo d'acqua. Era bellissima, siciliana classica, capelli neri ricci. Così mi ha cresciuto la nonna e ho avuto una nonna e una mamma insieme, l'amore di due persone in una».
Un'infanzia divisa tra Sicilia e Veneto?
«Sono tornato in Veneto per completare gli studi, come litografo ho incominciato a lavorare a Nervesa fino alla chiamata alle armi nei Paracadutisti, cercavo qualcosa che mi desse emozione. Congedato sono tornato in Sicilia e ho ripreso il mio lavoro in una piccola ditta di Trapani, facendo anche lo speaker a Teleradio Valderice. È stato proprio alla radio che ho avuto il primo impatto con la mafia, c'era appena stato l'attentato al giudice Carlo Palermo: i mafiosi avevano fatto esplodere la carica proprio mentre passava un'auto con una mamma e due bambine, tutte morte. Era rimasta impressa la macchia di sangue sul balcone di una casetta a venti metri dalla strada: il corpicino aveva lascito l'impronta. Dopo la scuola di Polizia, ero in servizio nella Volante di Reggio Emilia quando ho letto in bacheca un avviso che cercava uomini per il primo Maxiprocesso alla mafia. Era l'anno in cui Falcone e Borsellino erano stati spediti all'Asinara con le loro famiglie. A Palermo abitavo con Antonio Montinaro, una delle vittime di Capaci. Per un anno proteggevo un giudice popolare del processo, poi sono stato trasferito a Palermo dove mi facevano tante domande, era insolito che uno da Treviso chiedesse il trasferimento in Sicilia. Il capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, mi assegnò alla scorta del giudice Falcone. Era il 1988, fui presentato ai due capiscorta: Giuseppe Sammarco e Francesco Vellutini».
Come era vivere in mezzo alla mafia?
«Palermo è una bellissima città con gente straordinaria che ti dà amicizia che non finisce. Città dove non vedi la mafia, però ti accorgi che c'è quando si contano i morti e ne abbiamo contati troppi: giornalisti, poliziotti, magistrati, preti Mi colpì l'assassinio di Salvo Lima, un parlamentare, l'uomo in Sicilia della Dc di Andreotti, l'uomo dei collegamenti tra Cosa Nostra e certi apparati dello Stato capaci di influenzare processi e sentenze. Falcone stava indagando in quella direzione quando Cosa Nostra eliminò Lima. Scorrevano fiumi di denaro a Palermo, le raffinerie della droga da Marsiglia si erano trasferite qui. E da quel momento cominciò la rabbia omicida di Toto Riina».
Quanti eravate nella scorta?
«Eravamo 18 divisi in tre macchine, sempre tre a bordo tra autista, capopattuglia e gregario, quello che sta dietro: la Croma marrone fornita dal ministero dell'Interno; la Croma bianca fornita dal ministero della Giustizia con l'autista giudiziario assegnato dal Tribunale, Giuseppe Costanzo; infine, la Croma marrone. Quel giorno a Capaci l'ultima auto era in officina e fu sostituita da un'altra celeste. Io guidavo la prima, la chiamavo la mia macchina. La scorta garantiva due turni: dalle 8 alle 14 e dalle 14 alle 20. Ma erano orari sempre dilatati, ogni sera Falcone usciva con la signora Francesca e incontrava gli amici. Le auto erano blindate, in grado di resistere anche alla sventagliata di Kalashnikov».
Sapevate che quel 23 maggio sull'aereo c'era anche la moglie?
«Quel giorno i ragazzi ebbero la sorpresa di vedere che dal Falcon era scesa anche la signora Francesca che era andata a trovare il giudice a Roma. Falcone andò incontro all'autista Costanzo e gli disse: Oggi guido io. Gli piaceva mettersi al volante e non era facile dirgli di no. Quel giorno alla guida della prima auto c'era Vito Schifani che stava per entrare nella scorta. Falcone guidava rilassato, quando Costanzo gli ricordò che il mazzo di chiavi era il suo, in corsa tolse le chiavi e le sostituì con le sue. Rallentò proprio nel momento in cui imboccavano la curva. Il tritolo prese in pieno la prima auto, in quel punto si creò una voragine, il muso della Croma di Falcone venne sbriciolato, ma l'auto resistette: ad uccidere Falcone e la moglie è stata l'onda d'urto, Giuseppe Costanzo che era seduto dietro è sopravvissuto. E' il destino. Fa male oggi scoprire che nel 1992 parti dello Stato stavano trattando un accordo con i vertici mafiosi».
Ha conosciuto anche Paolo Borsellino?
«Era un uomo simpatico, con quella sua erre marcata del Trapanese. Un grande fumatore, persona schietta, ci salutava e si informava di ognuno, poi si metteva in macchina con Falcone. Una settimana dopo Capaci lo andai a trovare, ero smarrito, non sapevo cosa fare, pensavo che la sola cosa giusta fosse di entrare nella sua scorta. Mi ricevette nel suo studio in casa, poi mi disse: No, Luciano, io non voglio!. E, accompagnandomi alla porta, aggiunse: Io voglio che tu viva. Un mese e mezzo dopo ho capito cosa volesse dire».
Edoardo Pittalis
Ultimo aggiornamento: 09:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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