Messner: «Le Alpi erano divine, ora non più. All'umanità io non ho dato niente»

Domenica 6 Maggio 2018 di Adriano Favaro
Reinhold Messner
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Ha usato lo stile alpino - nessuna bombola d'ossigeno, niente portatori, corde fisse o campi organizzati prima- nell'Himalaya. Piccolo tra le montagne gigantesche. Leggero verso il cielo. Grande nelle rinunce e nei risultati. Quarant'anni fa saliva, il 9 maggio assieme a Peter Habeler, in cima all'Everest senza ossigeno supplementare: fino ad allora quella era la zona della morte. Due anni dopo, 1980 rifarà tutto, da solo dal versante cinese.
Reinhold Messner ci parla dall'Austria prima di fare il pieno dell'auto. L'uomo dalle 100 spedizioni, 3500 scalate («ho fallito una volta su tre» calcola), l'uomo che per primo ha salito i 14 ottomila del mondo, dal Nanga Parbat (1970) al Lhotse (1986); per dedicarsi poi nel 1990 all'Antartide attraversato con gli sci passando per il Polo Sud assieme a Arved Fuchs. E ancora i grandi deserti, le avventure di ricerca, 50 libri, film. Nato a Bressanone il 17 settembre del 1944, geometra, qualche anno all'Università di Padova, sulla carta d'identità Messner ha fatto scrivere agricoltore. Dal 2014 è Grand Ufficiale dell'Ordine della Repubblica italiana. 
Lo scorso anno ha presentato a Trento da regista il film Still Alive; sempre nella stessa città pochi giorni fa Holy Mountain, la Montagna Sacra, la storia di come la sua spedizione riuscì a salvare la vita ad un'altra spedizione neozelandese guidata da Peter Hillary, nel 1979, in Nepal sull'Ama Dablam. 
Montagna sacra. Montagne dove si muore
«L'Ama Dablam ha una storia di salita e conquista che permette di capire bene la differenza del nostro approccio con quello della gente locale: per i nepalesi sulla cima dell'Ama Dablam danzano gli dei una cosa che va rispettata».
Gli occidentali non vedono il divino. 
«Quella montagna è una delle più belle al mondo. È ancora montagna sacra nella visione locale, ma anche l'Ama Dablam è stata sacrificata al mercato del consumo, preparata per le salite. Anche l'Everest era sacro per gente del posto che accolse a sassate gli inglesi nel 1921 quando, per la prima volta vollero salirci».
Anche le Alpi erano sacre
«Hanno avuto, e perso, un dimensione divina dappertutto: ed era rispettata. Poi mille elementi, compreso il cristianesimo, che non critico, ma è un fatto, hanno cancellato quel tipo di cultura delle popolazioni locali. Ho fatto un libro sulle montagne sacre, ne esistono in tutto il mondo».
E qui a decine anche in questi giorni muoiono in montagna.
«Ho saputo. Lo dico con lo stesso sentimento tibetano per tutti i morti di adesso, ho visto degli ultimo due sull'Antelao; per questi disastri la gente in Nepal direbbe che gli dei non sono stati rispettati. Ma noi sappiamo che si tratta di errori, sassi caduti, valanghe, nebbie e bufere. Non credo che lassù ci siano dei: ma io rispetto la sacralità della montagna».
Forse un'idea di potenza acceca i sentimenti e toglie limiti 
«Se l'uomo pensa di diventare immortale e superare tutto con la tecnologia deve sapere che la natura è tutti i giorni nuova. È questa la sua grande invincibile forza».
Il 9 maggio 1980 lei vince la zona della morte: è in cima all'Everest, 8.848 metri, senza bombole di ossigeno. Quel confine l'aveva dentro di se, mi pare
«Vero. Per me l'alpinismo è fatto culturale e non sportivo; è tensione fra natura umana dentro e legge e natura fuori. Prima di una nuova salita e prima di uscire da casa mia per una spedizione studio filosofia e storia. In me crescono così idee e come salire».
Everest compreso.
«Non è stato facile: mi sono preparato per anni con allenamenti, studiato carte nuove e poi avevo paura di nuovi congelamenti (Messner è senza le dita dei piedi ndr). Non volevo lasciare niente al caso, ho studiato in ogni dettaglio tutto. Non mi sono sognato un giorno e ho deciso di partire così, senza maschera d'ossigeno. Ho programmato tutto il possibile».
Zero romanticismo.
«Non ho una visione romantica della montagna. Mi preparo, vado e faccio le mie imprese, ma la montagna è pericolosa: il suo fascino sta tra la grande bellezza e il fatto che può uccidere. Un uomo può cadere sotto una bufera».
Ha scritto un libro bellissimo Il limite della vita sugli alpinisti che sono volati e però hanno potuto raccontare le loro cadute.
«Ah sì, l'ho finito nel 1978 al campo base del Nanga Parbat, spedizione più importante di quella dell'Everest. Lo diedi alla mia compagna di allora, in caso della mia morte era un'eredità. E sono partito».
Che ha pensato dopo aver scalato il Lhotse l'ultimo dei 14 ottomila.
«Ero già con la testa avanti, ero curioso: avevo progetti per l'Antartide, la Groenlandia, i deserti. Poi ho capito che dovevo fare dei musei per raccontare il rapporto tra l'uomo e la montagna».
Anni dicendo: ho visto lo Yeti, lo Yeti esiste e tutti a prenderla in giro.
«Adesso gli scienziati mi danno ragione, ma tanti mi hanno criticato. Ho studiato otto anni questa storia: è vero che il mito esiste nei tibetani. Ma questo mito ha correlazione con un orso dell'Himalaya visto di tanto in tanto. Tutti i miti hanno una base reale. Io ho solo confermato quella base. E lo hanno fatto anche gli scienzati».
Ha anche detto: io so che George Mallory non è salito sull'Everest nel 1924.
«Era più facile dire che ci fosse stato, ho dimostrato, in un libro carino ho letto tutto, studiato, guardato foto - che invece non poteva esserci stato, assieme ad Andrew Irvine. Una fake news sarebbe stata preferita dalla gente, credo. I populisti vincono le elezioni con le bugie».
Cosa accade alla nostra psiche in condizioni così estreme come l'alta quota? Alcuni alpinisti mi hanno detto di aver parlato con compagni morti giorni prima
«Paura o situazioni drammatiche provocano forti eventi interni; spesso il cervello fa vedere all'ultimo momento, cose che non esistono solo per tenerti in vita...».
Crede di aver dato qualcosa all'umanità?
«Io non ho dato niente all'umanità. Ho fatto tutto per me stesso. Naturalmente i miei racconti hanno toccato molte anime. Ci sono tantissime persone che mi scrivono: grazie a lei vivo ancora; ero disperato, ho letto un suo libro e visto come lei abbia lottato per fino in fondo per sopravvivere e anch'io mi sono ripreso la mia vita. Non pensavo che fosse talmente grande la quantità delle persone che attraverso la lettura dei miei testi abbia preso coraggio e dato credibilità ad una speranza di vita. Sì, in fondo sono felice di aver regalato speranza a centinaia di migliaia di persone».
 
Ultimo aggiornamento: 7 Maggio, 08:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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