Aggredì il padre che poi morì. Accusa di tentato omicidio derubricata a lesioni: condannato a 4 mesi

Venerdì 22 Aprile 2022 di Francesco Campi
L'abitazione teatro dell'intricato episodio
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CORBOLA  - Era stato accusato di omicidio, poi, dopo una valutazione sulla sua capacità di intendere e volere e di stare in giudizio, era finito a processo con l'accusa di tentato omicidio. Ieri il nuovo colpo di scena in una storia drammatica e lacerante, che risale al 5 agosto di due anni fa, quando Terenzio Roma, ha impugnato un paio di forbici e, con queste, ha colpito più volte alla gola il padre 85enne, che si chiamava esattamente come lui, gravemente malato, spentosi a poche ore di distanza. La sentenza del Collegio ha infatti riconosciuto colpevole il 46enne di Corbola Terenzio Roma, detto Simone, ma non di tentato omicidio aggravato, bensì del reato di lesioni personali, condannandolo così ad una pena di appena 4 mesi. Nella sentenza sembrerebbe essere stata in qualche modo accolta quella che è stata la linea della difesa, affidata all'avvocato Cristina Zangerolami, che pure fino all'ultimo ha chiesto una nuova perizia per valutare la capacità di intendere e volere del suo assistito, affetto da schizofrenia e con un profilo psichiatrico particolare.

Di fronte al rifiuto del Collegio, ha quindi chiesto nella sua accorata requisitoria una derubricazione del reato, puntando sul fatto che, pur avendo in mano delle forbici appuntite e pur avendole mosse verso la gola del padre, avesse solo fatto dei lievi graffi, quasi che non ci fosse poi stata l'effettiva volontà di uccidere, o comunque ci fosse stato un mutamento nella sua volontà di uccidere il padre.

VICENDA INTRICATA

Padre che amava e insieme al quale viveva, prendendosi cura l'uno dell'altro. L'età e la malattia che affliggeva l'85enne, in pensione da tempo dopo aver lavorato prima nel settore delle lapidi e poi, da precursore, in quello dei giochi e delle slot machine, non gli lasciavano più molto tempo da vivere ed i medici l'avevano già comunicato alla famiglia. II figlio, nonostante la situazione caratterizzata da evidenti fragilità e problematiche, l'aveva sempre accudito ed i due vivevano in una sorta di simbiosi nella loro casa di via Pampanini. L'anziano era stato appena dimesso ed era tornato a casa, ma non perché stesse meglio, quanto perché, all'opposto, non c'era più molto da fare: per questo l'azione del figlio sembrerebbe essere stata dettata quasi dalla volontà di tentare di porre fine alla sua agonia, senza però riuscire ad affondare il colpo contro l'amato padre. Per questo l'avrebbe prima colpito con un pugno al volto, poi, con delle forbici. Con la volontà di uccidere, secondo la ricostruzione dell'accusa, non riuscendo nel proprio intento perché bloccato da una delle sue sorelle che era presente in quel momento. È stata lei stessa, dopo aver chiamato i soccorsi, a telefonare al sindaco Michele Domeneghetti per valutare l'esecuzione di un Tso al fratello. Mentre il medico del Suem medicava l'anziano, che in un primo momento non sembrava aver riportato lesioni particolarmente preoccupanti, tanto che in prima battuta si stava valutando se contestare o meno il reato di lesioni personali, il 46enne è stato a sua volta trasportato all'ospedale di Adria per essere ricoverato in psichiatria, dove era stato stato posto ai domiciliari. Il padre poi si è spento poche ore dopo, ma non per i tagli sul collo. A far cessare di battere il suo cuore sembra più essere stato il fatto di aver realizzato che si fosse ormai spezzato l'ultimo filo che lo teneva ancora aggrappato alla vita, l'accudirsi vicendevolmente con il figlio.

CASO GIUDIZIARIO

Una vicenda umana dolorosa ed un caso giudiziario con aspetti delicati. A cominciare, proprio, dal quadro psicologico del 46enne, che era già stato seguito dal servizio di Psichiatria dell'Ulss Polesana per disturbi di natura schizofrenica. Per questo, già in fase preliminare, il pm Ermindo Mammucci aveva affidato allo psichiatra forense Luciano Finotti, dirigente dell'Ulss 5, l'incarico di eseguire una consulenza sulla capacità d'intendere e di volere dell'uomo. La valutazione è stata che fosse in grado di intendere e volere, mentre il consulente della difesa, lo ha valutato parzialmente incapace. Sulla base, quindi, di quanto evidenziato nella perizia l'accusa, rappresentata in aula dal procuratore capo facente funzione Sabrina Duò, che non si era opposta alla richiesta di eseguire una nuova consulenza, ha chiesto la condanna ad una pena di 8 anni con il riconoscimento delle attenuanti, prevalenti sulle contestate aggravanti.

Ultimo aggiornamento: 13:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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