Rovigo e il rugby, una mostra sul legame tra la terra e il suo sport simbolo

Venerdì 21 Ottobre 2022 di Antonio Liviero
Una delle foto della mostra

ROVIGO - È un peccato, un peccato vero, di quelli che tormentano gli spiriti candidi, che il rugby non sia stato inventato a Rovigo. Perché la simbiosi con la città è tanto forte ed evidente e rara, anche nelle inevitabili stagioni di magra sportiva, da aver spazzato via, con il piglio di un vento impetuoso e irriverente, le immagini stereotipate di un Polesine alluvionato, terra di emigranti, sempre avvolto da nebbie dense e spinose.
Oltre i suoi fiumi, Rovigo era ritenuta la Cenerentola poco dotata del ricco Nordest. E ciò tra Adige e Po veniva vissuto con malcelato fastidio. Come un'etichetta ingiusta. Finché il rugby ha cominciato a dire basta a suon di mischie, placcaggi e mete, di scudetti e di legami che ne hanno portato la fama in Europa e dall'altra parte del mondo, dall'Argentina al Sudafrica, dalla Nuova Zelanda all'Australia. Paesi di campioni e squadre che, nel loro pellegrinare agonistico, tra i due grandi fiumi si sono finalmente fermati: chi per una partita, chi per più stagioni. Sono stati battuti o hanno tremato, hanno indossato la maglia con i colori rossoblù, stretto amicizie di quelle che non si consumano e in qualche caso vi hanno preso moglie.
È così che il rugby ha cambiato la storia. L'ha riscritta con il proprio linguaggio. Marco Paolini nello spettacolo Aprile '74 e 5, consegna con ironia, ma anche con profondo rispetto, ai rugbisti di Rovigo, la medaglia più ambita: dice che hanno il rugby infuso.

Quel rugby infuso è uscito dal campo. Per un tempo non lontano è andato in piazze, osterie, case e posti di lavoro. Si è fatto virus. Ha contagiato la comunità, diventando, pur con i suoi limiti, un modo di vivere, con un proprio sistema di valori.


LE RADICI POPOLARI
All'inizio l'impatto interno deve essere stato una specie di choc, una scossa nella routine della Rovigheto cara a Nando Palmieri, considerata lo scenario ideale per la nascita del gioco degli scacchi. Nell'Almanacco del Polesine del 1931 il commediografo redige una Piccola guida sentimentale, affettuoso e pungente ritratto della città, appena qualche anno prima che vi scoppiasse il rugby. E immaginando di salire sulla diligenza che sostava davanti alla stazione ferroviaria per utilizzarla come una macchina del tempo, si divertiva con la fantasia: «A Rovigo, in un caffè di piazza, hanno inventato il gioco degli scacchi. Soltanto in una piccola città - dove l'ala del tempo quasi non sfiora le cose - poteva essere inventato da un uomo di gusto, il gioco degli scacchi: lento, e da pensarci su. E non poteva il gioco non muovere torri, alfieri e pedoni in un caffè, dove la gente vive placida come in una oleografia». Quel matto di Palmieri, come amava definirsi, doveva aver fiutato qualcosa nell'aria. Gioco sì, da pensarci su anche. Ma in fretta, maledettamente in fretta. Quanto agli scacchi, stavano per traslocare in un prato per muoversi ad alta velocità, come dirà in seguito una celebre definizione del rugby. Ma quiete, zero. Vita placida addio. Piuttosto avventura. Ritmo, tanto ritmo. Torri, cavalli e Re stavano per rivoluzionare le regole e darsele di santa ragione.
Si può dire che a Rovigo il rugby lo abbia ordinato il dottore: Antonio Valgoi, studente di medicina che giocava nei Guf Padova, nel 1930 vi aveva organizzato la prima partita dimostrativa tra universitari patavini e friulani. E un altro medico, Dino Lanzoni, sette anni dopo mise in piedi la prima squadra. L'idea, dunque, maturò nelle élite del tempo. Ma l'anima fu da subito popolare. E tale è rimasta. È significativo come in Veneto, nonostante le energie profuse, quella rodigina sia stata l'ultima provincia a vedere germogliare il gioco ma la prima a vincere uno scudetto nel 1951. Come ha documentato la vasta ricerca condotta da Alberto Guerrini (Li chiamarono Bersaglieri, Piazza editore), gli appelli al reclutamento lanciati attraverso i giornali locali dai Guf e dal Fascio andarono deserti. Bisogna considerare che il Polesine era terra di braccianti agricoli piuttosto intraprendenti e organizzati: nel 1883-85, in seguito alla rovina portata dall'ennesima rotta dell'Adige, che seguiva quella del Po nel 79, avevano dato vita ai moti della Boje aprendo la stagione degli scioperi contadini nel Nord Italia. Era la terra di Giacomo Matteotti e sarebbe stata fino agli inizi del Duemila una indiscussa roccaforte rossa nel Veneto bianco. Logico pensare che rimanesse fredda nei riguardi di uno sport che non conosceva, proposto da fuori e con i favori del regime. Inoltre, la meglio gioventù era numericamente esigua, già impegnata in altre discipline dal calcio alla pallacanestro, dall'atletica al ciclismo, o scarsamente incline alla pratica sportiva.
Eppure qualcosa covava tra le bande di adolescenti che bazzicavano il rione di San Bortolo, cinque strade di case umide e slabbrate, formicolanti di gente, raggruppate intorno a una vecchia chiesa come lo descrive Toni Cibotto in Rovigo città di campagna. Lì c'erano due campetti affollati di ragazzi esuberanti, avvezzi a passare in un baleno dal gioco a rudimentali mischie spontanee: lo spelacchiato tappeto erboso circondato di tigli, adiacente al sagrato, e poco distante, nella cosiddetta San Bortolo Alta, la Corte delle Pignatte, un vivace cortile tra le case popolari che si affacciava sull'antico corso dell'Adigetto, dove avevano bottega diversi artigiani, un luogo di passaggio e di ritrovo oltre che di svago per i ragazzini. Da via Sabbioni e da via Toti arrivavano i fratelli Battaglini e Cecchetto, ma anche Vallin, Luppi, Nalio, Destro, Masiero, Siligardi. Altri venivano dal centro o da fuori, dall'aristocratica via Silvestri, dove abitava Giordano Campice, studente di ragioneria e calciatore, che diventerà una figura storica del rugby.
Per placare il chiasso ogni tanto spuntava una donna agitando la scopa o compariva minacciosa la sagoma di un vigile urbano la cui vista dava luogo a una fuga generale lungo viottoli che, saltando un fosso, mettevano rapidamente al sicuro.


GLI SCACCHI DI PALMIERI
All'energica vitalità di questi ragazzi che si divertivano semplicemente nello stare insieme, e presto sarebbero diventati (se non lo erano già) operai, facchini, muratori, panettieri, tipografi, braccianti agricoli, poco si addicevano gli scacchi romanticamente evocati da Palmieri. Dino Lanzoni pensò, invece, di mettergli in mano il pallone ovale, di condividere con loro la propria passione e di vedere che cosa sarebbe successo. La scintilla scoccò. Dino era un amico, di lui si fidavano e di conseguenza anche di quella palla dai rimbalzi beffardi. Erano forti, sapevano lottare e correvano veloci. Presto la loro febbre si propagò da San Bortolo alla città e dintorni. Tanto che il 23 aprile del 1939, per la finale del campionato italiano di categoria a Forlì, tra Gil Rovigo e Milano, si organizzarono i torpedoni (costo 20 lire a persona): la prima trasferta organizzata della tifoseria. Dopo il trionfo, la squadra e i sostenitori festeggiarono insieme sul campo, poi in piazza a Forlì e in serata a Cesena. E il 7 maggio si organizzò un'amichevole celebrativa con l'Amatori Milano, la squadra più forte d'Italia, che forniva nove quindicesimi alla Nazionale. Allo stadio ci andarono in 3000. Come se, fatte le debite proporzioni con la popolazione dell'epoca, a Milano gli spettatori fossero stati oltre 90mila.
 

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