Alessandro Giani e il ricordo dell'alluvione in Polesine: «Di guardia sulla riva e l'acqua ci travolse»

Lunedì 25 Ottobre 2021 di Edoardo Pittalis
Alessandro Giani

PAPOZZE - Paposse caput mundi, et Ficaròl secundo. Ed era davvero così, perché per Papozze allora passava il mondo che viaggiava sul Po. Papozze era Piazza Canton, sulla golena del grande fiume e l'argine maestro. Alla vecchia osteria della Tona si fermavano i barcari e i cavallanti, quelli che con i cavalli da tiro trainavano nei canali le imbarcazioni controcorrente; e i viaggiatori che seguivano la corrente o la risalivano. Papozze era una piccola capitale del fiume con quasi seimila abitanti, una banca, un teatro e una sala da ballo. In pochi minuti nella sera tra il 16 e il 17 novembre del 1951 saltarono tutti gli argini, l'acqua del Po respinta dall'Adriatico tornò indietro e allagò quello che incontrava. A Porto Tolle un bambino che giocava in riva fu strappato dall'onda e morì annegato, la prima di un centinaio di vittime. Da tre varchi si scaricarono sull'intero Polesine 8 miliardi di metri cubi d'acqua melmosa, mezzo milione di metri cubi al secondo. Quattro colpi di pistola sparati in aria erano il segnale che bisognava mettersi al riparo. Quando l'acqua si ritirò, Papozze non c'era più. Più di quattromila abitanti se ne andranno a cercare una casa e un lavoro, quasi tutti nel triangolo industriale. Quelli rimasti aspettarono una nuova Papozze che arriverà solo dopo il 1956 con la pubblicazione del decreto ministeriale sulla Gazzetta Ufficiale: Trasferimento dell'abitato di Papozze in provincia di Rovigo in dipendenza dell'alluvione del novembre 1951 a cura e spese dello Stato. I papozzani sapevano aspettare, conoscevano il proverbio che dice l'acqua e 'l cuor fa morir in silenzio. Ricominciarono a costruire. Alessandro Giani, 90 anni compiuti, era uno degli abitanti della vecchia Papozze, è stato tra i primi a muoversi per i soccorsi, poi ha aiutato come muratore la costruzione del nuovo paese del quale è stato sindaco.


Lei è cresciuto nel paese sulla golena del Po, come era allora la vita sul fiume?
«Mio padre, Natale, aveva un barcone per il trasporto fluviale, allora era tutto trasportato per acqua, è stato così almeno fino al termine della guerra.

Gli americani hanno lasciato camion e camioncini e il trasporto fluviale è decaduto, era più lungo e costava di più. Noi facevamo carichi da Mantova a Trieste attraversando tutti i canali, le lagune. Eravamo tre fratelli, la guerra l'ho vissuta in gran parte sulla barca, a un certo punto non si poteva più andare in acqua per via delle bombe e perché gli aerei mitragliavano tutto quello che si muoveva. Ho visto il fascismo e la resistenza, ho visto spie e uomini veri, e anche qualche morto».


Finita la guerra che cosa ha fatto?
«Avevo 14 anni, la scuola l'ho fatta sino alla quinta elementare, poi per guadagnare qualcosa ho fatto un po' tutti i mestieri. C'era povertà specialmente da queste parti. Non c'era altro da fare che continuare a lavorare sulla barca, a Papozze c'è sempre stato il traghetto per passare dall'altra del Po, quella ferrarese. Si è formata una cooperativa di traghettatori della quale mio padre è diventato presidente, gli americani avevano lasciato anche barche in ferro e con quelle è stato fatto il traghetto che è servito per anni, all'inizio non era a motore, funzionava a pendolo, una grossa fune tenuta dalle barche consentiva di andare avanti e indietro».


Cosa è successo in quel novembre di 70 anni fa?
«Avevamo a disposizione da pochissimi giorni una motobarca con motore a scoppio. Si chiamavano motori a Spa, come quelli dei camion mandati nella campagna di Russia: da benzina trasformati a metano. Pioveva da una settimana e non finiva mai, pioggia e vento di scirocco che è caldo e anziché soffiare verso il mare soffiava verso la terraferma. Ero alla guida come pilota quando una mattina di metà novembre ci siamo spaventati perché il Po cresceva in maniera anomala e non si poteva controllare la corrente. A un certo punto non hanno retto più gli argini protettivi, il Genio Civile con l'Esercito hanno distribuito sacchi pieni di sabbia e terra da mettere a difesa degli argini. Quel pomeriggio eravamo tutti sulla sponda e si sono sentiti dei rumori fortissimi, l'argine che proteggeva il paese si è rotto e tutto è andato sommerso, chi cercava un ricovero, chi scappava, chi chiedeva aiuto. Era il Po Piccolo quello che ha rotto e Papozze era diventato un lago; è seguito un silenzio spaventoso, il fiume aveva rotto anche a Occhiobello. Se l'acqua smorza il fuoco vuol dire che l'acqua l'è più potente di tutti». 


Che cosa l'ha spaventata di più? 
«Quando ho visto mi è mancata la voce. Le lepri dell'isola di Mezzano sembravano impazzite, a nuoto cercavano di raggiungere l'argine ma erano trascinate dalla corrente. Tutta questa massa d'acqua doveva essere bloccata, c'era un collettore a Polesella che porta fino agli argini dell'Adige, è chiamata la Fossa di Polesella. Siamo tra il Po e l'Adige, i due fiumi più grossi, e tutta l'acqua che viene giù e non riesce a raggiungere il mare ritorna indietro, verso Rovigo che è in pericolo e la strada è sommersa. Con coraggio il Genio Civile ha fatto saltare gli argini della Fossa e l'acqua ha incominciato ad allagare tutto e a trovare una strada verso il mare. L'acqua va su, non è una bicicletta. Papozze è allagata e man mano che arriva tutta la gente che vive nelle campagne, arriva con animali di ogni genere, si sposta tutta sugli argini e s'incammina verso il traghetto di Papozze che ancora funziona. E noi incominciamo a traghettare persone, bestie, carri. Tutti verso la parte ferrarese che fortunatamente non era stata allagata. Nel centro di Serravalle c'era una grande costruzione, la Casa del Popolo, bar, trattoria. Avevano organizzato nel cortile un trasporto di camion e corriere per trasferire la gente fino a Bologna, anche a Milano. E molti non sono più tornati indietro».


Dopo l'alluvione lei cosa ha fatto?
«Quando dopo molti giorni la terra ha incominciato piano piano ad asciugare, allora si è capito che c'era molto da fare. Il Genio Civile passava per le case e verificava i danni e tutte le spese erano a carico dello Stato. A quel punto da traghettatore ho cominciato a fare il manovale muratore tanto per ciapar la giornata. Si costruiva un po' dappertutto, sono state fatte tante case nuove. Papozze è rinata da un'altra parte, il primo nucleo si chiamava il Villaggio ed era stato donato dai Paesi Bassi: 40 alloggi suddivisi in dieci costruzioni. È rientrato dall'Africa il signor Remo Dallocco che in Etiopia dirigeva un migliaio di operai e raccontava che quando arrivava la sera si mettevano tutti in corteo e battevano i piedi per essere pagati. Mi ha assunto subito dopo il servizio militare che ho fatto al Genio pontieri di Piacenza, perché ero pratico d'acqua e pilotavo una motobarca grossa. A Castelmassa abbiamo costruito una via intera di case popolari, due anni di lavori. Ero capomastro e per vent'anni ho fatto case da ogni parte, per l'Iacp, per privati, a Adria, a Crespino, fino al mare. Quando nel 1974 il signor Remo è morto, mi sono messo in proprio e sono diventato un piccolo impresario, ho sempre fatto case, anche la mia lavorando il sabato pomeriggio e la domenica».


E adesso cosa fa?
«Adesso faccio il pensionato, ma nella vita ho fatto anche altro, sono stato sindaco di Papozze dal 1970 al 1975 e mi sentivo responsabile di tutto quello che capitava nel paese. Ero e sono rimasto un socialista, mi piaceva lavorare per gli altri, la notte facevo i conti di quanto era stato speso e di che cosa occorreva. Mi dica: go' abbastanza memoria a 90 anni? Dimenticavo: adesso per ogni cosa bisogna andare fino ad Adria, mi devo fare accompagnare perché mi è scaduta la patente e non trovo un'autoscuola».

Ultimo aggiornamento: 17:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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