Chicago, storia, sogni ma anche delusioni degli italiani d'America

Mercoledì 30 Maggio 2018 di Angela Pederiva
Chicago, storia, sogni ma anche delusioni degli italiani d'America
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La chiamano Windy City, ma non è per via del vento che pure soffia dal lago Michigan e sferza l'omonima Avenue, tempio del lusso nella città del commercio e della finanza. «È un'allusione ai politici, che si riempiono la bocca di aria: parlano, parlano e parlano», traduce con un sorriso Giuseppe Tentori, volto e anima del locale GT in Wells Street, arrivato da Lodi quand'era ragazzo per uno stage in cucina e diventato in carriera un ristoratore da due milioni di ostriche, servite anche a Barack Obama. Eccoci nella loro metropoli, la Chicago dell'ex presidente degli Stati Uniti ma anche dei tanti italiani che hanno trovato l'America qui, nell'Illinois che in questo 2018 sta per compiere i suoi primi duecento anni.
 



CASA ITALIA
Era il 3 dicembre 1818 quando veniva fondato il ventunesimo Stato della Federazione, terra ad alto tasso bianco-rosso-verde. «Il 7 per cento della popolazione è di origine italiana: i nostri connazionali e loro discendenti sono fra 200 e 300mila», stima Dominic Candeloro, figlio di un abruzzese e di una laziale, storico dell'emigrazione e docente alla Loyola University, oltre che direttore della biblioteca di Casa Italia. Nella quiete di Stone Park, paesino nella contea di Cook il cui sindaco è il calabrese Beniamino Mazzulla, sorge la struttura a cui da vent'anni fanno riferimento decine di enti e associazioni degli italoamericani. Ci arriviamo con l'auto guidata da Francisco, autista ispano-americano di Uber che pur detestando Trump si dice deluso da Obama: «All'inizio ha fatto delle buone cose, ma poi si è messo a pensare solo ai sussidi per i poveri, trascurando quelli come me che mantengono la famiglia lavorando duro».
 
Devono averlo pensato anche molti IAs (Italian Americans, ndr.), se è vero come dice Candeloro che the Donald ha vinto anche grazie ai loro voti. «Purtroppo dice il professore sono state dimenticate le nostre origini di emigranti, quando eravamo noi i poveri e gli emarginati, proprio come gli immigrati di oggi che l'attuale presidente odia. Così però la nostra cultura è a rischio: di italiano ci restano soltanto i cognomi e il cibo. E pensare che all'inizio i nostri genitori e i nostri nonni credevano che sarebbero tornati in Italia, per cui non c'era motivo di far studiare i loro figli... Ad insegnare loro l'inglese, per integrarli nella società, furono i religiosi scalabriniani, che a Chicago avevano una dozzina di parrocchie e qui a Stone Park un seminario».

L'EPOPEA
L'ultimo testimone di quell'impresa educativa è padre Augusto Feccia, che nel suo ufficio rilancia instancabilmente negli Usa il segnale di Radio Maria, regala un caffè degno dell'espresso proposto a 5 dollari nei bar del Loop e dopo una vita da missionario giramondo rimpiange ancora la Valbrenta. «Ho trascorso tre anni a Bassano del Grappa», ricorda l'anziano sacerdote, circondato dai manifesti che pubblicizzano gli attuali tentativi di recupero dell'italianità, sempre più schiacciata dall'americanizzazione. Corsi di italiano a vari livelli, il festival di scrittori oriundi Literati, centri estivi in cui i bambini imparano anche ad impastare una pizza assai più genuina della spessa ed ipercalorica versione locale deep dish, il Bracciola Day che seppure con una c (e parecchio pomodoro) di troppo prova a celebrare il cibo della memoria. E poi il museo, con centinaia di cimeli dell'epopea migratoria: il carretto siciliano, le porcellane toscane, i documenti nordestini. Ecco allora una cartolina della partita a scacchi di Marostica, la ricevuta di una traversata emessa dalla società triestina di navigazione Cosulich, una foto dei fratelli Dal Casson, due istantanee delle famiglie Nardi e Delle Molle, un'immagine bucolica della Parise Farm...
GLI ANEDDOTILa rivista Fra Noi, voce italoamericana di Chicagoland (area metropolitana da 9,5 milioni di abitanti), racconta le storie degli italiani che hanno fatto fortuna. Per esempio quella del compianto imprenditore e filantropo Gildo Gil Mazzolin, classe 1913, nato nella terza città degli Stati Uniti ma rientrato ancora bambino nella Cittadella di mamma e papà, salvo capire di voler tornare ad inseguire il suo sogno americano. Un miraggio diventato realtà con la Rex Carton Company, colosso delle scatole ora condotto dai nipoti, così chiamato in omaggio alla nave su cui il veneto si era imbarcato appena sedicenne.

Ma di aneddoti simili ne avrebbero da rievocare tanti anche i tre pensionati campani seduti fuori da casa, di fronte al santuario della Beata Vergine di Pompei in Lexington Street. «Quando arrivai a Ellis Island racconta il più ciarliero tenevo in mano un cartello con la scritta ToNY. Tutti pensavano che mi chiamassi Antonio, mentre intendevo dire To New York: volevo venire in America e temevo di non riuscire a farmi capire...». Si chiama invece davvero Tony lo chef e patron dello stellato Spiaggia, situato poco più avanti del prestigioso hotel Warwick Allerton, oltre che di vari altri ristoranti fra cui il Terzo Piano collocato appunto al terzo livello della Modern Wing, disegnata dall'archistar Renzo Piano e affacciata sul Millennium Park. Mantuano e la moglie Cathy, lui di ascendenza calabrese e lei di provenienza molisana, sono anche gli autori di un libro dedicato al wine food in cui non potevano mancare i cicchetti veneziani. «Appena abbiamo saputo del nuovo volo diretto Chicago-Venezia di American Airlines, abbiamo subito prenotato un viaggio per settembre: andremo sull'isola di Mazzorbo, a trovare i nostri amici Bisol», confidano davanti ad un calice di Prosecco Superiore Borgoluce, importato dall'azienda trevigiana delle contesse di Collalto, fra un tonno vitellato e un risotto all'amatriciana che fanno impazzire Obama («festeggiò a questo tavolo con Michelle la sua prima elezione») e a quanto pare anche Matteo e Agnese Renzi, ospiti di un loro ricevimento alla Casa Bianca. 

LITTLE ITALY
«Bill Clinton invece da noi adesso vuole solo vegano», confida Phil Stefani, proprietario di 18 ristoranti fra cui il Tuscany in Taylor Street, omaggio alla sua Lucca e alle ricette della nonna. «Quando vado a Venezia rivela ceno volentieri ai Do Forni e al Danieli, ma se mi chiedete qual è il mio piatto preferito, rispondo: spaghetti con pomodoro San Marzano, un filo d'olio e nient'altro, mentre gli americani credono che per mangiare italiano servano quintali di aglio...». Siamo nel cuore di quella che era Little Italy, il rione degli italiani di cui restano ora poche tracce: il panificio Scafuri, la ferramenta Chiarugi con le bandierine tricolori sul bancone, le granite di Mario's. «La costruzione di una strada e dell'Università tagliarono in due il quartiere e smembrano per sempre la comunità», racconta Susan Fox, appassionata guida di Chicago Greeter, rete di volontari che accompagnano i turisti alla scoperta della città dei chicagoans. Com'è lei che, dopo una vacanza fra Treviso e Conegliano, tiene nel cuore ogni scena di Finché c'è prosecco c'è speranza.

Del resto il sogno italiano pulsa anche qua, nella capitale del blues, passione alimentata pure da locali come Rosa's Lounge in Armitage Avenue, così denominato da Tony Mangiullo in onore della mamma, arrivata da Milano per aiutarlo nella gestione.
Tutti pazzi per la musica, ma anche per il football, il baseball, il basket, la boxe. Per rendersene conto basta entrare alla National Italian American Sports Hall of Fame, tempio delle gesta (e delle maglie, degli scarpini, dei guantoni) di Joe Di Maggio, Rocky Graziano, Vinny Del Negro, Primo Carnera e altri 260 campioni. «Spesso spiega il fondatore George Randazzo, nipote di siciliani gli atleti italoamericani non erano dotati di fisico o di talento, ma si allenavano sodo, erano determinati, non mollavano mai: così vincevano». Qui lo chiamano American dream, perché tutti hanno ancora voglia di sognare. Pure il senzatetto che sceglie il tratto del Magnificent Mile davanti alla Trump Tower per esporre il cartello con cui, facendo il verso allo slogan che è valso la vittoria al quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, chiede un Paese magari un po' meno grande, ma un po' più gentile: «Make America Kind Again».

Ultimo aggiornamento: 15:04 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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