Soldato condannato per lo stupro di una 15enne, le strazianti parole della vittima: «Quel terrore è marchiato nel mio corpo»

Domenica 14 Novembre 2021 di Cristina Antonutti
Violenze sessuali in aumento

PORDENONE - Una giovane vita stravolta da una violenza sessuale di gruppo. Una vita ricostruita in totale solitudine, con tenacia e coraggio, aspettando giustizia. Quando l'avvocato Cinzia De Roia le ha telefonato per dirle che in Pennsylvania era stato arrestato Alexis Miguel Bodden, il soldato americano che si era reso irreperibile prima che gli fosse inflitta una condanna a 7 anni di reclusione, è scoppiata in un pianto liberatorio.

Sono passati oltre dieci anni da quel terribile giorno. Francesca, così la chiameremo, non ci sperava più nel mandato di cattura internazionale firmato dal procuratore Raffaele Tito: «Ma adesso so che la giustizia prima o poi arriva e che avrò un po' di tranquillità. Io non mi sento forte, ma quello che mi è successo magari può dare forza e coraggio ad altre ragazze. Spero di essere d'aiuto».

L'UMILIAZIONE
Aveva da poco compiuto 15 anni quando è stata ubriacata e abusata dal militare americano e da un amico 17enne. Intervistarla è impossibile, non servono domande, perché Francesca è un fiume in piena che, rotti gli argini, mostra le ferite più profonde dell'anima e del corpo. «Mi hanno umiliato - racconta riferendosi agli aggressori - Hanno fatto il mio nome ai conoscenti e ho dovuto nascondermi per cercare di vivere. Mia madre mi ha portato all'estero, ho dovuto seguirla perché ero minorenne, pensava che fosse la cosa migliore per me e i miei fratelli. Ma ho capito che non era giusto scappare e sono tornata. Non stavo bene con me stessa, non riuscivo ad andare avanti sapendo che loro erano liberi e io non riuscivo a rifarmi una vita».

MI SENTIVO GIUDICATA
Un mese dopo aver compiuto 18 anni è tornata a Pordenone. Ha trovato ospitalità, ha ripreso a studiare mantenendosi con lavori stagionali nella ristorazione. Quattro anni fa ha capito che ricominciare proprio da Pordenone era impossibile e si è trasferita in un'altra regione. «Sono andata via - spiega - perché portare avanti questo peso è difficile. Ho chiuso ogni contatto con le persone che conosco a Pordenone. Uno dei due ragazzi si giustificava con i conoscenti, diceva che io ero consenziente. Non è stato facile far finta di niente. La gente sapeva chi ero, non potevo fare la ragazza normale, andare in discoteca, dovevo stare attenta a come mi vestivo, mi sentivo sempre giudicata. Mi faceva male che non capissero il mio dolore, che mi mettessero in dubbio. Mi è successo, ma non vuol dire che non posso continuare a vivere come tutti gli altri. C'è stata gente che mi chiedeva sei tu quella? Mi dava rabbia, sconforto, mi dicevo non riuscirò mai a finirla».

LA PAURA

Nel 2011 ha denunciato lo stupro spinta dalla madre. «Io ero titubante - ammette - Non avevo opposto resistenza perché avevo paura, pensavo fosse l'unico modo per salvare la vita. Non avevo forze, ma che cosa ti puoi aspettare da una ragazzina? Uno era un militare! Avevo paura a denunciare, temevo che nessuno mi credesse. Quando i poliziotti che mi interrogavano, mi chiedevano se ero consenziente, se era stata una bravata... Non mi sentivo tutelata, ma mia mamma ha insistito e alla fine ho detto di sì. Sono stati anni difficili, sono andata in depressione e per un periodo non sono andata a scuola. Mi seguiva una psicologa, mi sentivo sempre giudicata e non capita».

GLI INCUBI
Rincorrere la giustizia senza il supporto di una famiglia, una volta rientrata in Italia, è stata ulteriore fonte di angoscia. «Non vedevo mai una fine. Andavo in Tribunale a Trieste, poi lasciavo perdere, ricontattavo l'avvocato e a un certo punto ho detto basta: era diventato un peso». Dice che con l'arresto di Bodden negli Usa le è stato levato un peso, anche se la paura resta. «Cerchi di dimenticarti il suo volto - confida - Passano gli anni, magari te lo trovi davanti alla porta di casa e non lo riconosci. Lui era irreperibile... E se volesse farmela pagare? L'altro ragazzo continua a chiedere di me. Lui ha sempre negato la violenza convinto di non aver fatto niente e cerca il mio perdono».

TIMORE DI RITORSIONI
Adesso Francesca ha 26 anni e una famiglia. «Ho un compagno che mi capisce, che mi ripete che non sono sola. Sono diventata mamma, ho due figli e temo per loro. Continuo a vivere nell'angoscia. Quando è nata mia figlia, non volevo una bimba, non perché non la desiderassi, ma avevo paura che le succedesse quello che è successo a me. Temevo di non farla crescere bene per colpa delle mie paure e ansie». Non è seguita da uno psicologo, dice ha paura ad aprirsi. «Grazie a Dio ho avuto giustizia, anche se ho paura di alimentare la rabbia di queste persone, non vorrei subire ritorsioni. Loro stanno pagando, è giusto che capiscano che hanno sbagliato. Mi hanno portato via tante cose, compresi gli anni della mia adolescenza. Non posso vivere serenamente la mia sessualità, il trauma resta e trovare una persona che ti capisca non è facile. Io ci sono riuscita, ma immagino che certe ragazze che non riescono a farlo, abbiano la vita rovinata. Io da allora ho disturbi alimentari, il mio corpo vive il dolore così. Non ci penso, ma il problema c'è comunque. Io ho un compagno fantastico, non per tutte è così, c'è chi non riesce più a vivere nonostante il sostegno delle persone che ha accanto».

APPELLO AI GIUDICI
Francesca riflette anche sul fatto che ci sono tanti tipi di abusi: «Quello fisico non necessariamente è più importante di quello verbale. Non si deve giudicare i fatti, ma come sta la vittima, i giudici lo devono capire quando valutano questi casi. Io mi porterò nella tomba questo dolore. Sette anni per questa persona che mi ha rovinato la vita? Che si è nascosto? Non credevo più nella giustizia, ma ho sempre avuto speranza, sapevo che non si poteva nascondere per tutta la vita».
 

Ultimo aggiornamento: 12:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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