Le vittime senza voce della strage di Peteano cinquant'anni dopo

Martedì 31 Maggio 2022 di Cristina Antonutti
Il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni

Peteano, 31 maggio 1972. Una 500 bianca imbottita di tritolo esplode uccidendo tre militari dell’Arma. Il brigadiere Antonio Ferraro, siciliano, 31 anni, vive a Mossa e sta per diventare papà. Il carabiniere scelto Donato Poveromo, lucano, ne ha 33 e si è appena sposato. E il carabiniere Franco Dongiovanni, leccese, ne ha 22, avrebbe voluto fare il barbiere, ma il padre lo ha convinto ad arruolarsi. Sono passati 50 anni. Quando si parla dell’eccidio che segnò gli anni della strategia della tensione c’è sempre un nome in primo piano: Vincenzo Vinciguerra, reo confesso condannato all’ergastolo, terrorista di estrema destra che con le sue rivelazioni ha sempre attirato su di sè l’attenzione. E poi Carlo Cicuttini, la primula nera di San Giovanni al Natisone che fuggì in Spagna per operarsi alle corde vocali e rendere la voce irriconoscibile.

Catturato nel 1998 a Tolosa dalla Digos di Udine con uno stratagemma, è morto di cancro a Palmanova nel 2020, mentre scontava l’ergastolo. Su vittime e familiari è come se fosse calato un cono d’ombra. Eppure a Sagrado e Mossa, così come a Lecce, oggi il dolore rivive, acuto e straziante, come allora.

LA FAMIGLIA FERRARO
Rita Famea il 31 maggio 1972 aveva 24 anni e il pancione. «Mia figlia Antonella è nata 13 giorni dopo la strage - racconta - Ho due grandi rimpianti: il primo è che mio marito non sia riuscito ad abbracciarla, il secondo è che quella sera l’ho lasciato andare in caserma». Ferraro avrebbe dovuto fare il turno di notte, andò in caserma a vedere Ajax-Inter, finale di Coppa dei Campioni. Alle 22.35 arrivò la telefonata con cui Cicuttini diceva che «xè una machina che la gà due busi sul parabreza. La xè una 500quecento bianca, visin la ferovia, sula strada per Savogna». Ferraro non si tirò indietro. Ieri mattina Rita Famea ha incontrato una vicina di casa. Si sono abbracciate. «Lei piangeva - racconta - Mi ha detto che parla ancora con lui, gli dice “perché sei andato a toccare la macchina?”. Le ho detto che era il suo lavoro». Rita, come ogni anno in questo periodo, è agitata e nervosa. «Sono passati 50 anni, ma non cambia nulla - afferma - Ho avuto tutto il paese accanto a me, mi sono stati vicini in tutti i modi. Il ricordo di Donato è vivo, ce l’hanno nel cuore». Siciliano esuberante e simpatico, aveva conquistato tutti con il suo modo di fare. Condivideva la passione per la caccia con i compaesani e non faceva mai pesare grado e divisa. Per la prima volta Rita ha acconsentito che la loro storia fosse raccontata in un libro (“Anni Bui” di Salvatore Lordi). Mostra l’ultima foto che «Donato non ha fatto in tempo a vedere»: lei con in dolce attesa, lui in divisa che le cinge protettivo le spalle. Oggi Rita sarà a Peteano per la commemorazione, spera di incontrare anche Luciana Cressatti, la vedova di Poveromo che ora abita a Fanna. «Il dolore c’è - ripete - Io ho dovuto farmi forza perché per mia figia ho dovuto essere madre e padre».

LA FAMIGLIA DONGIOVANNI
Luigina Dongiovanni lo zio Franco non l’ha mai conosciuto, ma è cresciuta con il peso del dolore sin dalla nascita. La nonna sempre vestita di nero, le visite al cimitero di Uggiano, le cerimonie con l’Arma, mai una festa. Il 9 maggio, nel giorno dedicato alle vittime delle stragi, ha portato la sua testimonianza di parente di una vittima di terrorismo alla Camera. Parlava anche a nome della famiglia Ferraro. «È giusto ricordare - osserva -, perché a quella telefonata risposero sì anche se non erano ancora in servizio». Vive a Lecce, insegna a scuola e ha conseguito una seconda laurea in Storia europea con una tesi sulla strage di Peteano. «Ho scoperto la verità, piccoli particolari dolorosi - racconta - Ho messo a posto dei tasselli, indagato sui motivi per cui hanno messo la bomba, sulla personalità di Vinciguerra. Questi ragazzi di estrema destra aspettavano un ritorno del fascismo, di un uomo forte e una soluzione forte contro il comunismo. La bomba poteva colpire chiunque. È stato un caso a portare la Storia con la S maiuscola nella mia famiglia».

LE RIPERCUSSIONI
Rita Famea non si ferma all’eccidio. «A me dispiace - precisa - per i sei che furono arrestati per errore. In un modo o nell’altro hanno rovinato la vita anche a loro». Luigina Dongiovanni è d’accordo: «Tutti hanno avuto ripercussioni nella loro vita. Mio padre Pietro Paolo ha iniziato la carriera nell’Esercito con un fratello rubato a 22 anni. I miei nonni, Ippazio Cosimo e Luigia Ciriolo, non hanno mai superato la tragedia. Ogni anno mandavano i fiori a Peteano». La nipote di Franco Dongiovanni ha però trovato la strada per lasciar andare tanto dolore: è la strada della memoria. «Quando preparavo la tesi passavo le notti a scrivere, il cuore si rimpiccioliva o ingrandiva a seconda che esaminassi perizie o depistaggi. Non ti darai mai una risposta, ma puoi metterti il cuore in pace e io, allo zio Franco, con questa tesi ho dato quello che lui ha dato a noi. Mi sono calmata. Alla Camera ho portato la mia esperienza di vittima, perché nella strage di Peteano le vittime sono scomparse. I protagonisti sono gli autori del depistaggio o Vinciguerra con le sue rilevazioni. Le vittime sono cadute nell’oblio. Cinquat’anni qui e non ci ha mai calcolato nessuno». Perché le lacrime, come sottolinea Luigina, «non fanno rumore».

IL DISCORSO
La nipote di Dongiovanni parla di strage qualunquista. Nella sua tesi ha cercato riportare brani di libri non più pubblicati, l’analisi della telefonata, perizie e quante più testimonianze possibili. «Scrivere - dice - mette il dolore da parte, gli dà un ordine. Mio papà era sempre solo, mia nonna sempre in nero... scrivere libera l’anima». «Essere qui - ha detto nel suo discorso alla Camera - significa essere stati toccati nell’animo e nell’intimo da una di quelle bombe che agitarono la nostra Italia negli anni di piombo, essere qui rappresenta per le nostre famiglie non essere stati dimenticati come nomi, tra i tanti, di un lungo elenco». Con il tempo alle ricorrenze ha conosciuto i parenti di altre vittime, come Antonella Ferraro, e poi sentito il desiderio di «fare i conti con questo macigno che mi portavo addosso, di capire perché la storia che insegno ogni giorno avesse fatto irruzione nella mia vita». Ha passato notti a leggere pagine «piene di piombo e di bombe, pensavo non sono sola, chissà quanti figli, madri e padri hanno sofferto». E così è «entrata la vita dove prima c’era solo morte e assenza. È giusto ricordare Antonio, Donato e Franco perché a quella telefonata risposero sì anche se non erano in servizio, perché essere carabiniere è una scelta di vita».

Ultimo aggiornamento: 07:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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