Rugby, l'ex azzurro Elio De Anna punta alla presidenza della Fir: «Nonostante le risorse il movimento arranca»

Lunedì 21 Dicembre 2020 di Paolo Ricci Bitti
Elio De Anna

Elio De Anna, lei è uno di quei medici in pensione che - a 71 anni - è tornato gratuitamente in servizio per fronteggiare l’emergenza Covid costata la vita a 260 suoi colleghi: ora però si candida per la presidenza della Federazione Rugby?
«Sì, è sempre una questione di servizio alla collettività: nella professione così come nello sport, nella politica, nella vita di tutti i giorni».


Ex presidente della provincia di Pordenone (dove è nato a Cordenons, ex consigliere regionale, lo scomparso fratello Dino, ugualmente rugbysta di rango, fu fondatore e senatore di Forza Italia, ex azzurro   tutt’ora consigliere nazionale della Fidal e - ha scritto un quotidiano della sua regione, candidato alla presidenza della stessa Fidal del Friuli-Venezia-Giulia: non c’è una presidenza di troppo?
«Guardi, l’unica a cui punto è quella della Fir, non so perché abbiano scritto della Fidal Fvg, circostanza che smentisco categoricamente.

Del resto di tanto in tanto mi indicano anche quale candidato sindaco di questa o quella città. E, di fatto, a gennaio uscirò anche dalla lunga e utile esperienza con la Fidal nazionale. L’unica tessera che ho in tasca è quella del Fontana Rugby di Fontanafredda, un piccolo club».


Lei ha avuto una carriera ragguardevole in nazionale (ala XXL e poi terza linea, due rarissime partite (per l’epoca) contro All Blacks - la prima dell’Italia - e All Blacks jr, e poi pure nel Resto del mondo, ma finora nessuno dei 18 presidenti Fir dal 1928 è stato un azzurro. 
«E proprio con un gruppo di ex azzurri (Marchetto, Bonetti, Mariani, Vezzani, tra gli altri) che ci siamo detti che era ora di interrompere questa “tradizione” per far ripartire la federazione». 


Fosse solo quello: lei a metà marzo avrà contro, tra gli altri, non solo il presidente uscente Alfredo Gavazzi (già 2 mandati), ma anche due ex azzurri dal brillantissimo cv: Marzio Innocenti e Paolo Vaccari (vedi scheda sotto). Forse battere gli All Blacks è più facile.
«Vedremo, per principio non do giudizi dei rivali anche se devo valutare in chiaroscuro il bilancio degli 8 anni di Alfredo Gavazzi. Il rugby in Italia ha da 20 anni la vetrina fenomenale del Sei Nazioni e, grazie ad essa, notevolissime risorse, ma la nazionale non vince un match nel Torneo da 5 anni (7 a Roma), il campionato che assegna lo scudetto è sprofondato nell’anonimato e le due franchigie create per rifornire la nazionale restano in fondo alle classifiche della coppe europee. La Fir, è evidente, ha inoltre perso quel peso politico negli organismi europei e mondiali che aveva con Giancarlo Dondi (il precedessore di Gavazzi, ndr). E i tesserati calano con in più l’emergenza Covid da affrontare per tenere in piedi il rugby di base che si sostiene solo con le quote delle famiglie. Invece che degli avversari posso parlare del mio programma?».


Ventisei pagine compresi capitoletti in rosso per argomenti su cui chiede di essere periodicamente giudicato già durante il mandato. 
«Perdoni se uso il termine inglese accountability, ma potrei usare “responsabilità”: è quella degli amministratori che impiegano risorse finanziarie pubbliche. In federazione deve tornare il senso della responsabilità dal presidente in giù: non raggiungere gli obbiettivi fissati significa avere fallito il proprio compito e prenderne atto. E deve esistere un bilancio di competenza, chiaro in ogni voce, perché il paradosso è che le risorse alla Fir non mancano: con un budget di oltre 42 milioni è la federazione più ricca, nel senso che è quella che può mettere più fondi a disposizione per ogni tesserato, fondi che peraltro solo in piccola parte derivano dal Coni. E altri ingenti denari sono in arrivo grazie alla vendita di quote delle coppe e anche del Sei nazioni a equity fund. Risorse che però saranno ben spese solo se investite in progetti di sviluppo capaci di compensare i minori introiti prodotti d’ora in poi da competizioni i cui ricavati andranno divisi fra un numero maggiore di soci. Il nostro programma dimostra che il budget federale è sufficiente per il rilancio del movimento».


Ma davvero vuole smantellare il sistema delle accademie federali Under 18 e Under 20? E’ mutuato da fior di nazioni potenze nel rugby e inoltre le nazionali giovanili - almeno loro - se la cavano di gran lunga meglio di quella dei “grandi”?
«Sì, costano troppo, non danno abbastanza risultati e hanno fatto saltare un corretto rapporto fra club, franchigie e nazionali».


Ma le accademie servono anche a sopperire le carenze dei club soprattutto nel centrosud Italia.
«Anche l’atletica ha problemi simili: di accademia ne serve appunto una nel centrosud che allestiremo rilanciando anche i comitati regionali: l’Italia centro meridionale negli anni ha perso protagonisti che vogliamo recuperare. E istituiremo anche una “camera bassa” di raccordo fra club e consiglio federale, entità ora spesso troppo distanti».


Disfare quanto faticosamente costruito negli ultimi dieci anni è facile, ma poi come rifare? Come ripartire per inseguire avversari già molto più veloci?
«Le accademie non serviranno più, eccetto quella del centrosud, perché le due franchigie (Zebre Parma e Benetton Treviso, ndr) dovranno avere l’under 20 e schierare anche un XV seniores nel Top 10 ovvero Top 12. E anche le squadre di questo campionato dovranno allestire l’under 20 che ogni domenica in trasferta viaggerà insieme alla squadra maggiore per contenere i costi».


Quindi almeno le due franchigie restano?
«Certo e sarebbe bello più avanti poterne allestire una nel centrosud». 


La vogliono invece a Padova, le risorse sembrano esserci.
«Lo so, valuteremo con serenità una legittima aspirazione anche se siamo molto vicino a  Treviso e si è capito che il business complessivo di questi progetti è redditizio se collegato all’offerta del territorio, vedi ciò che accade con il Sei Nazioni a Roma. Ma non c’è alcuna preclusione. Però intanto nel giro di un paio d’anno anche le Zebre devono diventare private, l’anomalia della franchigia federale deve finire, fermo restando il forte sostegno della Fir a entrambe perché dovono competere con avversari che di frequente hanno un budget appena sotto quello dell’intera nostra federazione». 


I club italiani da anni boccheggiano tra bollette e magari anche tra ingaggi di giocatori (stranieri compresi) non così esaltanti. Lei è d’accordo con Garald Davies, presidente della Union gallese, che già prima della pandemìa ha detto ai club di non dare più una sterlina ai giocatori che non siamo quelli delle franchigie?
«Certo, in pieno: il passaggio al professionismo, 25 anni fa, ha illuso che si potesse campare di rugby causando un corto circuito dannosissimo. Il movimento italiano, ma anche quello mondiale, può essere professionistico solo per un ristrettissimo numero di atleti di altissimo livello e con un carriera di pochi anni. Tolto quello, bisogna spazzare via quelle mistificazioni che hanno anche fatto perdere il senso del giocare a rugby mentre si diventa adulti. Può essere definito professionista un giocatore che nel nostro Top 10 prende - se va bene - 2mila euro lordi per 10 mesi l’anno? Meglio lasciare perdere. Intendiamo invece aiutare i club  economicamente nelle spese “vive”, ma con rendicontazioni trasparenti, e tecnicamente, grazie ad allenatori qualificati. Il campionato che mette in palio lo scudetto deve tornare importante. E deve essere trasmesso in tv in chiaro, deve tornare sui giornali e non solo sui social, che non fanno comunità».

Il professionismo ha fermato anche l'arrivo di stelle dell'emisfero sud che rendevano bella, e quindi anche importate e appetibile per i media, la lotta per lo scudetto.

«Certo, è così, dobbiamo fare con le nostre forze. Ogni eventuale ingaggio deve essere ben soppesato. Campioni assoluti in gioro non ce ne saranno più. Nel Top 12 saranno ammessi nel foglio partita solo 2 comunitari o extracomunitari, solo uno nella serie A che si chiamerà Super 30 appunto con 30 squadre. I club saranno comunque liberi di tesserare quanti comunitari o extracomunitari ritengano opportuno. Dalla B in giù non sarà ammesso tesserare alcun extracomunitario, mentre sarà libero il numero dei comunitari ma solo uno riportabile nel foglio partita. E perdoni se, cambiando per un attimo contesto e livello, ricordo adesso che per quanto riguarda i bambini non ci dovranno essere limiti o divieti per quelli non italiani, perché ci manca solo che uno sport inclusivo e globale come il rugby la domenica metta a margine per la partita chi si è allenato, ovvero ha giocato tutta la settimana con i compagni di club».


Super 30? Un momento, ma è possibile che non si posso tornare a chiamare le cose con il loro nome? Guardi che chi è fuori dal, ovvero la vastissima maggioranza, poi perde la bussola: le franchigie vanno per i fatti loro in Europa e va bene, poi c’è la massima divisione, quella che assegna lo scudetto ovvero la Serie A (e non il tragicomico Eccellenza oppure Top qualcosa), poi sotto c’è la B, e quindi la C che possiamo pure dividere in C1 e C2, poi tanto il rugby italiano a questo punto è già finito.
«Ha ragione, ci penserò».  


Grazie, tornando ai club, chi formerà i formatori che metterete loro a disposizione?
«Per il settore giovanile Olivier Magne (49 anni, 89 caps per la Francia, anche allenatore della Francia A) con al supervisione di Pierre Villepreux (ct della nazionale all’epoca di De Anna, poi ct della Francia e allenatore del Treviso, ndr), per quello seniores dell’alto livello presto potrò rivelare il nome, così come va introdotta la figura di un direttore generale, un manager non necessariamente proveniente dal movimento».


Per Villepreux tantissimo di cappello, ma ha 77 anni.
«La sua competenza e la sua passione non si discutono. Ricorda quando Pierre girava per i club italiani allestendo corsi per allenatori? Gli dobbiamo tantissimi tecnici di ottimo livello».


Ricordo, anche Georges Coste lo faceva. Ricapitolando, un giovane talento scovato e sbozzato da un club periferico, magari con l’aiuto di un tecnico federale, sale fino a un club della serie A, pardon, Top 12, poi all’under 20 di una franchigia e quindi alla prima squadra ancora della franchigia. A quel punto è pronto per il salto in nazionale. 
«Sì, e da qui il giocatore viene messo sotto contratto dalla Federazione con un accordo che non ha nulla a che vedere con il contratto della società di appartenenza. In maniera lineare e senza creare illusioni, senza essere mortificato da miseri minutaggi o da impieghi in ruoli non consoni e con la certezza che anche chi lungo la strada scopre di non potere ambire all’alto livello ha intanto appreso quei valori del rugby che lo rendono ideale per combattere bullismo, ludopatie, cattive abitudini come il fumo, l’alcol e come gli squilibri nell’alimentazione. Con un aiuto ai club anche per quanto riguarda le strutture e con il rafforzamento dei comitati regionali vogliamo favorire al massimo la partecipazione dei volontari, della famiglie, delle squadre degli old e del rugby integrato, elementi imprescindibili del movimento che deve legarsi al territorio e alle sue comunità. E sono previsti forti sostegni al rugby femminile che ha dimostrato di avere ottime capacità di esprimersi nel rugby internazionale: le ragazze meritano investimenti importanti».


Anche nel prossimo Sei Nazioni non ci sarà il debutto del primo arbitro italiano nella storia del Torneo.
«E’ molto triste, ma le ho detto che la Fir ha via via perso peso internazionale. Intanto va subito ridata autonomia agli arbitri rispetto alla federazione favorendo anche il processo di reclutamento».


I governi di Scozia, Inghilterra e Galles hanno dato o daranno un sostegno alle Union che per colpa del Covid hanno visto sparire il pubblico dagli stadi.
«Più che al Governo pensò in realtà a ministeri come a quello dell’Istruzione e dell’Università. Vogliamo ricreare il rugby negli atenei, i Cus, insomma, e nelle scuole. E poi ogni squadra del Top 12 dovrà avere una squadra Seven con cui partecipare a tornei che finanzieremo. Non credo che il Coni si tiri indietro se chiederemo sostegno per tentare di portare una squadra alle prossime Olimpiadi in Francia, magari con le ragazze è più possibile». 

LO SCENARIO


Per la presidenza Fir a marzo, in coincidenza dell’ultimo turno del Sei Nazioni si profila una corsa a 7. Si parte dal numero uno uscente Alfredo Gavazzi, 70 anni, di Calvisano, già due mandati, che l’altro ieri ha scritto: “Dopo essermi consultato con la mia famiglia e averne informato i colleghi consiglieri, ho deciso di presentare la mia candidatura a presidente della Fir per il quadriennio olimpico 2020-2024. Ho riflettuto a lungo prima di mettermi a disposizione, ancora una volta, del movimento e del gioco che amo, valutando l’evoluzione di una serie di problematiche fisiche con cui mi sono confrontato e che hanno toccato persone a me intimamente vicine. Il fiorire di candidature che ha caratterizzato il recente passato è segno di vitalità del nostro sport e ho il più profondo rispetto di coloro che, nei mesi a venire, concorreranno insieme a me per guidare la Federazione”. Poi la novità Elio De Anna. Quindi tenta di nuovo la scalata federale Marzio Innocenti, medico chirurgo livornese-padovano, presidente del comitato regionale del Veneto, 62 anni, ex capitano azzurro, 42 caps. Prima volta invece per Giovanni Poggiali, 49 anni, romagnolo di Ravenna (Gruppo Setramar) cresciuto a Siena, imprenditore vitivinicolo, presidente del comitato regionale dell’Emilia-Romagna, fondatore della franchigia Romagna che copre tutto il rugby della via Emilia da Imola a Rimini e anche il Ravennate e San Marino,  rappresentante di “Pronti al cambiamento”. Si presentano per la prima volta anche Nino Saccà, avvocato livornese, vicepresidente uscente e - in settimana è atteso l’annuncio - Paolo Vaccari, consigliere federale uscente, Calvisano, architetto, 49 anni, 64 caps e 22 mete, secondo metaman di sempre dietro Marcello Cuttitta, 25). Anche il siciliano Gianni Amore dovrebbe infine ritentare.

Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 18:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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