Va in scena la tragedia del Cermis, ma i teatri friulani la “snobbano”

Domenica 3 Febbraio 2019 di Dario Furlan
La cabina della funivia precipitata dopo che l'aero ha tranciato i cavi
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PORDENONE - Sembra che i teatri cittadini non siano interessati alle proposte di riflessione su tragedie della storia italiana. È  il caso di “Ciò che non si può dire”, pièce dello scrittore milanese (trentino di adozione) Pino Loperfido, incentrata sulla strage occorsa proprio 21 anni fa oggi, il 3 febbraio 1998 a ridosso dell’abitato di Cavalese, allorché un velivolo EA-6B“Prowler” (Predatore) dei Marines, decollato dalla Base Usaf di Aviano e poi miracolosamente rientratovi, tranciò col suo volo spericolato due cavi della funivia dell’Alpe Cermis, determinando la caduta dall’altezza di 80 metri di una cabina con venti persone a bordo, perite all’impatto col suolo.  La pièce di Loperfido ha in realtà debuttato 17 anni or sono, ma viene riproposta da qualche mese in qua in molti teatri del Trentino, con unico protagonista Mario Cagol, che smette i panni del comico per indossare quelli dell’attore. La produzione aveva anche scritto ai teatri pordenonesi Verdi e Don Bosco, sperando di poter includere il capoluogo della Destra Tagliamento tra le “date”, ma l’offerta non ha ricevuto alcuna risposta.
IL TESTO
E allora val la pena di dare un’occhiata al testo di Loperfido. In esso si ricostruiscono (tra cronaca e teatralità) antefatto, tragedia e postumi di questo amaro episodio. A raccontarlo è idealmente l’unico sopravvissuto, ovvero il manovratore dellaltra cabina, che su quel vagoncino viaggiava in compagnia dei suoi soli pensieri, e che poco prima nel tragitto va e vieni della funicolare aveva incrociato quei venti «bambini felici» stipati nella cabina parallela, sciatori reduci da una mattinata spensierata tra le piste del Cermis, i cui volti ridenti e soddisfatti lo avevano contagiato per un attimo, salvo poi ripiombare nella solitudine. Pochi secondi dopo un tremendo rumore avrebbe distolto il manovratore dai suoi pensieri, un colpo di frusta lo avrebbe sballottato contro pareti e vetrate della cabina, che avrebbe selvaggiamente dondolato per interminabili secondi, rimanendo appesa, e solo dopo qualche ora sarebbe stato tratto in salvo da un elicottero dei pompieri.
LA RIFLESSIONE
Un istante solo (che per quelle venti vittime durò gli 8 secondi della caduta) per comprendere la fragilità dell’esistenza. A un certo punto lautore si domanda: «Cosa avevano in comune un jet militare decollato da Aviano e una cabina della funivia del Cermis? La risposta è ... niente, se solo l’equipaggio dell’aereo avesse rispettato regole e piano di volo. Nulla, se solo fossero state ascoltate le innumerevoli precedenti segnalazioni alle autorità circa i ripetuti voli a bassa quota in quella zona». Ma, come spesso avviene, i provvedimenti vengono assunti solo dopo che gli allarmi si sono trasformati in disgrazia. Come accaduto anche dopo questa tragedia.
LA CENSURA
«Ero illeso fuori — riflette il manovratore -; dentro, però, giù negli abissi dell’anima, ero spaccato. Anzi, sono morto più io da solo che quei venti disgraziati. E non c’è una cosa più brutta del silenzio dopo tanto rumore».
Già, perché a tuttoggi si fa di tutto per dimenticare questa abominevole strage. «A cominciare dal faccione del carabiniere che nel primo video girato sul posto alzava la mano per oscurare l’obiettivo della telecamera puntata sui resti della cabina, sfracellata su una neve non più nivea, perché cosparsa di sangue polverizzato, brandelli di carne, una mano, un busto, una testa». Perché occorre ricordarsi di quelle venti persone: sette operai di una fabbrica della Sassonia, cinque belgi, un accompagnatore di Cavalese, due amiche di Bressanone, madre e figlio polacchi, due giovani viennesi e una studentessa olandese. Erano tutti turisti, «e noi qui di Cavalese i turisti li teniamo in un palmo della mano, perché portano soldi, benessere e occupazione» scrive Loperfido, esattamente lo stesso identico atteggiamento che hanno i pordenonesi riguardo gli americani della Base Usaf di Aviano.
Ma sui recenti libri che raccontano ufficialmente storia e aneddoti dellaeroporto Pagliano e Gori di Aviano non vi è traccia alcuna di questa strage, nonostante la missione del Predatore avesse prese avvio e termine nel nido della Pedemontana pordenonese. E invece occorre sempre ricordare questo episodio, «perché il decorso del tempo non aggiusta niente, perché è talmente difficile e doloroso riferire dell’ingiustizia, dell’egoismo e dell’arroganza» argomenta Loperido. E perché in ciascuno di noi non deve mai venire meno il desiderio di conoscere, comprendere e riflettere.
Ultimo aggiornamento: 4 Febbraio, 10:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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