L'attentato nella missione, la notte da incubo di don Loris: «Ritornare in Mozambico? Ora ho bisogno di aiuto»

Venerdì 16 Settembre 2022 di Pier Paolo Simonato
Il sacerdote Loris Vignandel
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AZZANO DECIMO - Il feroce attacco alla missione diocesana di Chipene, in Mozambico, nella regione di Cabo Delgado, era stato messo in atto nella notte tra martedì 6 e mercoledì 7 settembre.

Con inaudita ferocia e fredda determinazione, un commando di jihadisti aveva decapitato due collaboratori locali dei sacerdoti pordenonesi Lorenzo Barro e Loris Vignandel,  45enne originario di Corva di Azzano Decimo,

 L'84enne suora comboniana Maria De Coppi era stata poi colpita alla testa da due proiettili sparati a bruciapelo, mentre si trovava nei locali della struttura. Durante l'assalto i due fidei donum della Chiesa concordiese avevano inviato un drammatico messaggio via Telegram: «Qui sparano. Ci vediamo in Paradiso. Stanno incendiando la casa». Della cittadella tenacemente costruita da religiosi, volontari e cooperanti (il primo mattone era stato posto nel lontano 1963) sono rimaste soltanto rovine fumanti. Anche l'ambulatorio, un dispensario prezioso per la poverissima gente del posto, è andato in cenere. Con tutte le preziose medicine e i vaccini che conteneva.

Don Loris Vignandel, con quale stato d'animo ha passato le prime ore in Friuli dopo il rientro dal Mozambico?
«Francamente non saprei dirlo. Sto cercando di riprendere confidenza con la vita e di ritrovare un po' di normalità. Ma, mi creda, non è facile».

Però almeno fisicamente sta bene?
«Sì, è il resto che mi lascia perplesso. Serviranno tempo e aiuto».

Ha scelto di non stabilirsi nell'abitazione dei suoi genitori, in via Pradat Morosini a Corva, optando invece per un'altra casa. Come mai?
«Già prima di partire per l'Africa, nel 2017, avevo deciso di trasferire le mie cose nella canonica di Cusano di Zoppola, rimasta vuota dopo la morte del parroco. Adesso ho scelto di tornare lì, più avanti vedremo».

Riesce a dormire?
«Ci provo. Tutto ciò che è accaduto va sedimentato. Serve tempo, non può succedere dall'oggi al domani».

I messaggi che lei ha mandato agli amici via Telegram in diretta da Chipene, nella notte dell'orrore, sono finiti su tutti i giornali, le televisioni e i social media. Sembra impossibile scrivere Ho perdonato chi eventualmente mi ucciderà. Fatelo pure voi. Un abbraccio. Lo pensava davvero?
«Certo, nel profondo del cuore. E lo penso anche oggi».

Ma crede che per chi le vuole bene sarebbe stato possibile perdonare i suoi assassini?
«Non lo so, per me sì».

Torniamo a quella notte: cosa è successo esattamente?
«Io posso raccontare soltanto ciò che ho visto e sentito, non i retroscena, veri o presunti, della vicenda. Quando è cominciata l'incursione nella Missione e i ribelli hanno fatto irruzione in chiesa, io e Lorenzo ci siamo salutati e chiusi nelle nostre camere. È stato un crescendo di urla, fuoco e spari. Fuori dalla mia stanza udivo le voci di almeno quattro persone, tutti maschi. Distruggevano i locali, rovesciavano le statue, bruciavano i due pick-up che avevamo a disposizione. Nessuno di loro ha però cercato di forzare la serratura per entrare. Non so perché sia accaduto, ma è chiaro che anche questa è stata una scelta ben deliberata, come altre di quella scorreria. A un certo punto, potevano essere le 2.30, mi è arrivato un messaggio sul telefono cellulare. Diceva che una suora era stata uccisa, però il nome non c'era. Allora ho pensato ai miei cari, alla vita e alla morte, alla preghiera e alla fede che mi sorreggeva in quegli attimi terribili».

E poi?
«Ancora spari, il crepitare dell'incendio e un attizzatoio in azione per alimentare sistematicamente le fiamme nei locali. Quindi il silenzio: se n'erano andati. Ho aspettato un po', sono uscito, ho abbracciato Lorenzo e, insieme, abbiamo saputo di Maria».

Il suo rapporto con la religiosa di Vittorio Veneto?
«Posso dire che ha offerto una splendida testimonianza, parlava macua e amava stare in mezzo alla gente, ai poveri e a chi aveva bisogno di lei».

Cosa farà adesso?
«Per rispondere prendo in prestito le parole di un vescovo che ho conosciuto bene, durante gli esercizi spirituali da assistente dell'Azione cattolica. È monsignor Mansueto Bianchi, che oggi non c'è più, ma ci ha lasciato un'eredità importante. Ci diceva: Bisogna decidere a chi regalare la propria pelle, per capire dov'è la nostra felicità. Ecco, io l'ho regalata alla Diocesi di Concordia-Pordenone. E continuerò a farlo».

In che modo?
«Lo stabiliremo con il presule Giuseppe Pellegrini».

Ma ritiene di poter tornare in Africa?
«Vuole la verità? Non lo so: in questo momento ammetto di non avere un progetto ben chiaro in testa. Ho già incontrato in queste ore i miei genitori, alcuni amici e confratelli. Cerco la normalità, lo ripeto».

Nel frattempo?
«Mi metto al servizio delle parrocchie della zona, per le celebrazioni e per tutto ciò che può essere utile alle comunità di Zoppola, Ovoledo, Poincicco, Cusano, Murlis, Castions. Io sono qui».

Pensa a un percorso di recupero specifico per affrontare lo shock post-traumatico?
«Di certo dovrò affrontare un cammino psicologico ed essere aiutato a capire e a rielaborare tutto ciò che è accaduto. Per ora navigo a vista».

A Chipene sono rimaste soltanto rovine fumanti. Ci può essere ancora un futuro, per quei poveri che aiutavate ad andare avanti con dignità e speranza?
«Molta gente è in fuga dal terrore, in quella zona del Mozambico. Ci sono incursioni e combattimenti, omicidi, raid. La situazione si aggrava ogni settimana».

Domani cosa farà?
«Deciderò giorno per giorno».
 

Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 10:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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