Armando Cimolai e le lotte sindacali: «Duro ma umano, fuori dal lavoro mi chiamava "capo"»

Martedì 4 Ottobre 2022 di Marco Agrusti
Armando Cimolai

Armando Cimolai era nato nel 1928. Le Cgil nel 1944, dopo il buio del fascismo. Figlio di un altro tempo, Cimolai a volte “sopportava” la presenza del sindacato in azienda. Non era la sua tazza di the. «Ogni tanto il suo vecchio stampo non gli faceva comprendere benissimo il valore della rappresentanza dei lavoratori». Eppure quell’uomo antico, cresciuto quando le organizzazioni sindacali erano prima sciolte e poi messe al bando, «rispetto a tanti altri datori di lavoro è stato capace di distinguersi in positivo nel rapporto con i propri dipendenti». E se poteva vantare il primato degli zero licenziamenti, molto passava da quella sopportazione diventata collaborazione. «Per questo, quando domenica ho saputo che non era più tra noi, ho pensato: onore delle armi». Le parole, senza la patina stucchevole che accompagna ogni scomparsa illustre, sono quelle di un uomo che con Armando Cimolai ci è finito anche faccia a faccia. Sì, perché Maurizio Marcon, attuale vertice regionale della Fiom, in Cimolai è lavorativamente nato e cresciuto.

Tra lotta e “governo”. 


LE STORIE


Il dirigente del sindacato più duro doveva avere un altro destino. Gliel’aveva cucito addosso proprio quel capo all’antica che era Armando Cimolai. «Quando gli comunicai la scelta di intraprendere la strada dell’appartenenza al sindacato - racconta Marcon, che figura nell’organico della Cimolai dal 1981 - rimase deluso. Per me aveva individuato un percorso aziendale che mi avrebbe permesso di fare carriera. Vedeva qualcosa in me, e la scelta di aderire al sindacato non la capì. Poi però, quando gli arrivò la notizia che ero diventato delegato, mi disse questo: “Sono deluso perché non sei diventato un capo in azienda, ma lo diventerai nel sindacato». Come a dire, non mi ero sbagliato. Avevo valutato bene. 
Sono gli anni Ottanta, in fabbrica si lotta per strappare condizioni di lavoro migliori. Anche qualche lira in più può distendere i rapporti. «Ed è lì - ricorda ancora Marcon - che viene fuori il grande senso di responsabilità del Cimolai uomo, prima che datore di lavoro. Ha sempre cercato di non mettere in difficoltà i suoi dipendenti, anche in un quadro fatto da appalti mondiali che presuppongono anche esposizioni finanziarie. Zero ore di cassa integrazione? Per lui era un vanto. Armando era così, pensava “io sono io, e se devo fare qualche sacrificio lo faccio volentieri, ma non lo faccio pagare ai miei dipendenti”. Con me - va avanti ancora il leader della Fiom - non è stato sempre un angelo, s’intende, e nelle dinamiche sindacali non era una “colomba”. Ma raramente abbiamo avuto scontri personali. Nulla che possa minare un ricordo, quello di queste ore, carico di affetto e rispetto per una persona con dei valori mai scalfiti, nemmeno nelle difficoltà». 


LE BATTAGLIE


Gli anni Ottanta, poi, arrivano alla fine. Si appanna il sogno di una crescita senza fine. E anche alla Cimolai irrompono le battaglie per il contratto, le vertenze scandite dal ritmo degli scioperi. «Nel 1987 - racconta sempre Marcon - il primo grande confronto, dal quale uscimmo vincitori come sindacato e come lavoratori. Dopo 40 ore di sciopero riuscimmo ad ottenere la riduzione dell’orario di lavoro e un adeguamento dello stipendio. Nel 1993 una nuova vertenza, questa volta conclusa con l’esito opposto. Protestavamo per gli stessi motivi e lo sciopero durava da una settimana. Quella volta però non cedette e dovemmo andare noi a bussare alla sua porta». Per la tregua, uno a uno. 


I TEMPI MODERNI


«Qualsiasi azienda, nel suo ciclo vitale - prosegue il leader della Fiom Cgil -, attraversa momenti di grande difficoltà. Mi ricordo quando a causa di un grave evento atmosferico a Roveredo in Piano se ne andò una porzione di tetto della fabbrica. Si poteva chiudere, ricorrendo alla cassa. Ma ci sedemmo a un tavolo con Armando e trovammo una soluzione per non perdere nemmeno un’ora di lavoro. E anche quella volta zero cassa integrazione. I numeri d’altronde parlano per lui, e sono dalla sua parte. I dipendenti della Cimolai sono sempre stati trattati con rispetto». 
Le crisi cicliche, le commesse internazionali, tutte difficoltà “normali”. Il 2020 porta invece qualcosa di nuovo, potenzialmente dirompente. Un virus venuto dalla Cina chiude il mondo, cioè il campo di gioco della Cimolai. «Il momento più complesso - ricorda ancora Marcon - perché i mercati internazionali erano fermi e sul fronte interno eravamo sfidati da colossi a partecipazione statale che guadagnavano le opere». Anche allora, però, niente cassa. Si va avanti, fino alla ripartenza. E sempre parlando - senza zucchero a velo - con quel sindacato che Cimolai da uomo dell’altro secolo capiva sì e no. «Poi però quando mi trovava fuori dal lavoro diceva a chi era con lui: “Questo è il mio paron”». Il mio capo. Come a dire: mi tiene testa, può sedersi al tavolo, ci avevo visto giusto.

Ultimo aggiornamento: 12:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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