Wilma Viscardini: «Io da euro-avvocato ho fatto giocare Platini»

Mercoledì 12 Aprile 2023 di Maria Grazia Bocci
L'avvocato Wilma Viscardini

PADOVA - È stata la prima donna ad essere assunta al Servizio giuridico della Commissione europea. Era ancora molto giovane e si ritrovò con una cinquantina di colleghi uomini. «Il direttore generale mi disse: “Lei è la prima donna, dipenderà da lei se ce ne sarà una seconda”. Due anni dopo arrivò una collega francese». Wilma Viscardini, uno dei massimi esperti italiani e stranieri di diritto comunitario, oggi ha 88 anni («e mezzo», ci tiene con giusto orgoglio a precisare) e lavora ancora nello studio da lei fondato in via Altinate a Padova.
Preferisce essere chiamata “avvocato” o “avvocata”?
«Avvocato, il femminile non mi piace.

Ingegnere, chirurgo o architetto sono solo nomi di professioni, non vedo perché debbano identificare il genere. Le mie battaglie sono state altre e le ho combattute sul campo».


Lei è stata la prima donna avvocato di Rovigo, città dove è cresciuta. Com’è andata?
«È stata una vera scommessa. In quegli anni alla facoltà di Giurisprudenza di Padova eravamo sì e no una decina di ragazze. Diciamo che suscitavo molta curiosità e qualche perplessità».


Poi il salto in Europa. Come le è nato questo interesse? «Eravamo agli inizi della costruzione europea. All’Università ancora non si studiava il diritto comunitario. È stato mio marito Gaetano Donà, laureato in Scienze politiche, poi capo divisione al Segretariato generale della Commissione europea, a farmi innamorare della materia. Già in quegli anni era un convinto europeista ed aveva una mentalità molto più aperta della mia».


Come è stato confrontarsi in Europa con un mondo prettamente maschile?
«Anche in Europa, come in Italia, eravamo considerate emotive e con poca capacità di giudizio. Basti pensare che, in Italia, le donne sono state ammesse in magistratura soltanto nel 1963. Una strada in salita».


Che differenze fra l’Europa degli esordi e quella di oggi?
«Ho vissuto la guerra, avevo 11 anni quando è finita, me la ricordo bene e ne ho orrore. L’Europa degli inizi era animata dal desiderio di cancellare le atrocità della guerra e creare un clima di amicizia: i primi anni ‘60, a Bruxelles, sono stati entusiasmanti. Oggi ci si è quasi dimenticati del perché è nata l’idea di un’Europa unita e spesso riemergono gli egoismi nazionali. Fino al 1973 è stato comunque più facile andare d’accordo perché gli Stati membri erano solo sei, oggi sono 27. In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che l’integrazione europea ci ha garantito settant’anni di pace».


Ma adesso c’è il conflitto fra Russia e Ucraina. Cosa ne pensa?
«Pensavo che a nessuno sarebbe più venuto in mente di provocare una guerra, tanto meno alle nostre porte. Purtroppo non è così».


Una volta rientrati in Italia, lei e suo marito avete cercato di far conoscere il diritto comunitario sollecitando i giudici nazionali a porre quesiti interpretativi alla Corte di giustizia Ue. Celebre la storica sentenza “Donà-Mantero” sulla libera circolazione dei calciatori europei.
«È stata un’idea geniale di mio marito. Stiamo parlando degli anni ‘70. La Federazione Italiana Giuoco Calcio era restia ad aprire ai calciatori stranieri, in contrasto con le norme europee. Si rivolse a noi Mario Mantero, presidente del Rovigo Calcio, esprimendo il desiderio di avere qualche giocatore straniero nella sua squadra. Mio marito fece pubblicare sui periodici belgi un’inserzione per cercare giocatori disposti a trasferirsi in Italia: arrivarono diverse manifestazioni d’interesse, ma Mantero non le prese in considerazione perché le riteneva premature se prima la Figc non avesse cambiato le proprie regole e si rifiutò di pagare le inserzioni. Parliamo di 31mila lire dell’epoca».


E cosa accadde?
«Assunsi la difesa di mio marito che fece causa a Mantero - d’accordo ovviamente con lui - per sollevare il caso davanti al giudice conciliatore di Rovigo che, a sua volta, investì la Corte di Giustizia chiedendo se il principio della libera circolazione dei lavoratori si estendesse anche ai calciatori professionisti e se la Figc potesse opporsi. Con sentenza del 14 luglio 1976, la Corte Ue ci diede ragione. Fu così che qualche anno dopo la Figc dovette aprire le frontiere. Tra i primi ad arrivare in Italia, alla Juventus, fu Michel Platini».


Lei ha messo al mondo tre figli. Come ha conciliato impegno professionale e famiglia?
«Per fortuna ero ben remunerata e potevo permettermi aiuti esterni. Certo l’impegno è stato grande, ma non l’ho mai vissuto come un sacrificio perché mi sentivo gratificata sia dal lavoro che dalla famiglia. È stato comunque fondamentale il sostegno, in entrambi gli ambiti, di mio marito».
 

Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 09:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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