Adriano, Renato e quelle 417 vite spezzate dal virus senza una carezza

Martedì 17 Novembre 2020 di Gabriele Pipia
L'equipe infermieristica della terapia intensiva dell'Azienda ospedaliera di Padova

PADOVA - Il primo, la sera di quel maledetto venerdì 21 febbraio, era stato Adriano Trevisan. Poi lo stesso destino è toccato a Renato e Sergio, Dina e Maria, Gianluca, Antonio e Mansueto. Oltre quattrocento vittime in tutta la provincia dall’inizio dell’emergenza ad oggi e una striscia che continua ad allungarsi. Da Dora a Teresa, da Ettore a Giancarlo. I padovani morti dopo esser stati colpiti dal Covid negli ultimi tre mesi sono stati 100 con un’accelerazione drammatica nell’ultima settimana: lunedì 9 novembre erano 376 mentre ieri il bollettino ufficiale ne registrava 417. Nove solo nella giornata di ieri. 
I numeri danno la dimensione di un enorme lutto collettivo ma dietro le cifre ci sono 417 storie diverse. Anziani già gravati da patologie pregresse, per i quali il virus ha rappresentato una mazzata fatale. Oppure nonni ancora in salute, prima di contrarre il Covid e non vedere mai più i propri nipoti. Ma anche uomini e donne decisamente più giovani. Come Miriam, che di anni ne aveva 42 e già lottava contro un tumore. Come Claudio, con i suoi 56 anni la seconda vittima più giovane, che si è spento da pochi giorni nella disperazione della famiglia: «Stava bene». 
LE CONDIZIONI 
La maggior parte è morta in ospedale, al reparto di Malattie infettive di Padova oppure nelle Terapie intensive dislocate in tutta la provincia. Ma moltissimi se ne sono andati in un letto di una casa di riposo. Il focolaio più grande della prima ondata si è verificato a Merlara, con 34 vittime e un pensionato dimezzato. Ora lo stesso drammatico destino tocca alla “Borgo Bassano” di Cittadella dove il numero dei decessi ieri è salito a 14. 
Le scene sono quasi sempre le stesse. Un’infermiera commossa davanti all’ennesimo paziente che se ne sta andando e una dottoressa a confermare che non c’è più nulla da fare. Muoiono tutti senza nemmeno un ultimo saluto dei familiari che nella stanza del proprio caro non possono accedere. Un senso di solitudine ancor più accentuato tra marzo e aprile quando per chi moriva non era possibile nemmeno fare un vero e proprio funerale. 
LE PREGHIERA
L’ultima preghiera, però, spesso per i familiari è davvero importante. Ecco perché Michela Marca, coordinatrice infermieristica della Terapia Intensiva di Padova, a marzo si è trovata a farne una vicino al paziente. «Il marito stava morendo e la moglie ci ha fatto sapere che per lei sarebbe stato molto importante che ci fosse una sorta di estrema unzione - racconta ora l’infermiera - Quella preghiera l’ho fatta io, dentro il nostro reparto, al posto della famiglia».
Accanto ai lutti ci sono mille momenti di delicatissima umanità. «Mi è capitato anche che morisse in Rianimazione il padre di una mia amica. Ci siamo sentite al telefono e abbiamo pianto insieme». Già, il telefono: così viene comunicato il decesso, nella maggior parte dei casi, ai familiari. «Purtroppo non possiamo avere altri tipi di contatti. Loro non possono nemmeno vedere la salma» spiega ancora la coordinatrice di un reparto che rappresenta davvero l’ultima spiaggia. 
I PERIODI
Dalla fine di febbraio ad oggi c’è stato solo un periodo in cui la Terapia intensiva dell’Azienda ospedaliera, diretta dal dottor Ivo Tiberio, non ha avuto nemmeno un paziente Covid: 45 giorni tra il 23 maggio e il 3 luglio. Ora invece i pazienti sono 20. «Da quando è iniziata la seconda ondata abbiamo avuto tre decessi - prosegue Michela Marca -, mentre i momenti più emozionanti sono sempre quelli delle dimissioni. Ad un paziente abbiamo addirittura fatto la passerella. È un momento bellissimo per noi e per loro». 
GLI EFFETTI PERSONALI
Tra i momenti più brutti, invece, c’è quando un familiare di un defunto si presenta al reparto per recuperare il sacco con gli effetti personali del proprio caro: un orologio, un telefono, un altro oggetto al valore affettivo inestimabile. Ma inestimabile è anche il valore di alcuni rapporti che si creano tra pazienti e personale sanitario. Un settantenne ricoverato in ospedale dal 27 febbraio è stato in Rianimazione, ha passato diversi reparti e ora, quasi ultimata la fase del ricovero riabilitativo, dopo otto mesi è pronto ad essere dimesso. L’infermiera questa volta sorride: «È nato un bel rapporto. È diventato un amico». 
 

Ultimo aggiornamento: 08:39 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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