Padova. Suor Albina Zandonà, dalla comunità per minori alle Cucine popolari: «Non siamo migliori, solo più fortunati»

Suor Albina è un tipo schietto, modi gentili, sempre disponibile, con le idee molto chiare. La sua è una missione, una scelta di vita

Mercoledì 22 Marzo 2023 di Vittorio Pierobon
Suor Albina Zandonà

PADOVA - Gli ultimi di Padova sono i suoi fratelli. I poveri, gli emarginati, i reietti dalle famiglie, gli immigrati, i senzatetto, gli "avanzi" umani della società opulenta sono i benvenuti. Suor Albina Zandonà dirige da quasi sei anni le Cucine economiche popolari di Padova, un'istituzione a matrice religiosa (gestita dalla Fondazione Nervo Pasini) che da 141 anni cerca di aiutare i bisognosi, fornendo pasti ed assistenza. «Ci tengo a chiarire che quelli che vengono qui non sono i "nostri" poveri, ma sono i poveri della città. Noi svolgiamo un servizio di supplenza, che fa comodo a molti». Ogni giorno vengono serviti, tra pranzo e cena, più di trecento pasti, oltre ad una serie di servizi per la persona che vanno dall'uso delle docce, all'assistenza medica. Il popolo dei "clienti" delle Cucine è molto fluttuante, a parte uno zoccolo duro che si reca regolarmente alla mensa. Vanno e vengono, spesso spariscono. L'80% è straniero, in maggioranza uomini.

Provenienti da 86 Paesi diversi. Un microcosmo di umanità, un concentrato di drammi e disperazione, ma anche di speranza e voglia di riscatto.

La storia delle Cucine

«Qui da noi c'è lo specchio dell'emarginazione del Paese. Le Cucine sono state aperte alla fine dell'Ottocento su iniziativa di Stefania Omboni, una signora protestante che voleva aiutare le famiglie padovane cadute in miseria a causa di una tremenda alluvione. Una donna molto aperta che, nonostante la diversità confessionale, ha chiesto aiuto al vescovo. Negli anni i fruitori sono cambiati, sono arrivati gli operai, gli studenti universitari, poi dopo il '78, con l'entrata in vigore delle legge Basaglia sono arrivati anche diversi ex pazienti, quindi con la diffusione delle droga, molti tossicodipendenti, ed ora è la fase degli extracomunitari». Le porte del Cep, come vengono chiamate le Cucine economiche popolari, sono aperte per tutti, purché rispettino le regole di convivenza civile. «Noi accettiamo chiunque, senza alcuna distinzione. Un giorno mi ha scritto un giovane che voleva venire, però ha premesso che era ateo e voleva sapere se questo mi disturbava. Io gli ho risposto che sono una suora e se questo non lo disturbava era il benvenuto».

Le regole

Tutti gli ospiti vengono registrati, i poveri assoluti hanno diritto al pasto gratuito, chi ha ristrettezze economiche paga un contributo che varia da mezzo euro a due euro. «Lo facciamo per far capire il valore del servizio. Non tutto è dovuto, bisogna saperselo anche guadagnare. Comunque non rifiutiamo un pasto a nessuno. Anche chi è completamente privo di documenti viene accolto. Noi non siamo un organo di polizia e non guardiamo se uno è clandestino. Se ha fame lo sfamiamo. In questi casi scattiamo una foto per il riconoscimento. Da noi nessuno è anonimo, cerchiamo di chiamare tutti gli ospiti per nome e ci rivolgiamo sempre con modi garbati, salutando chi arriva. La gentilezza paga. Chi viene qui, generalmente, è rispettoso degli altri. È una regola basilare, all'interno, niente contrasti. Chi non rispetta questa regola sa che ne può pagare le conseguenze. La "pena" può consistere in qualche giorno di accesso vietato alla mensa. Un po' di disciplina è fondamentale. Molti sono di fede musulmana, ma anche questo non è un problema. Anzi devo dire che sono estremamente rispettosi: per loro questa è una casa di Dio».

L'impegno

Dirigere le Cucine è un impegno gravoso. Suor Albina può contare sull'aiuto di altre cinque consorelle, una dozzina di operatori che lavorano a tempo pieno e almeno un centinaio di volontari. «Noi reggiamo grazie ai volontari. Io e le consorelle viviamo qui, questa è la nostra casa, e questo è importante per dare uno stile di vita alla comunità, però potremmo fare molto poco senza l'ausilio del piccolo esercito di volontari e senza gli aiuti esterni. Buona parte del cibo che diamo proviene da donazioni. In particolare dalla Coldiretti e da 5-6 supermercati. Ci fanno avere il cibo invenduto. Non merce scaduta, ma solo in eccedenza o in scadenza».

Chi è suor Albina

Suor Albina è un tipo schietto, modi gentili, sempre disponibile, con le idee molto chiare. La sua è una missione, una scelta di vita. Suora per vocazione, ma anche un po' per imprinting familiare (tre zie suore e uno zio prete). «È stata una scelta ponderata, dopo aver fatto le magistrali e con un'esperienza di lavoro come operaia. Durante un campo scuola ho conosciuto un sacerdote giovane. Lo vedevo felice. Ho capito che era quello che cercavo e sono entrata in un convento delle Elisabettine. Il mio desiderio era di dedicarmi ai bisognosi. E sono stata accontentata: prima di arrivare qui ho lavorato per quattro anni al Cottolengo di Sarmeola e per 25 in comunità per minori». Non ci tiene molto a parlare di lei («quello che conta è quello che faccio, non quello che sono») e quasi si schernisce. «Sono nata nel '61 a Coste di Maser, paesetto di un migliaio di abitanti vicino ad Asolo. Non sono un'intellettuale, ma semmai sono per l'azione, anche se ritengo la cultura un elemento fondamentale per la crescita. Ho studiato per quattro anni Scienze religiose, sono laureata in Scienze dell'educazione e ho un master in Council».

«Non siamo migliori, solo più fortunati»

Una donna così si sente più suora o più manager? «Io sono una donna consacrata, questa è la mia essenza - afferma con convinzione - non sono una monaca, sono una suora con una vita molto attiva. Per me l'essenza è la relazione con il Signore. La preghiera ha un posto importante nella mia giornata e, dato che devo dedicarmi anche al lavoro, mi alzo alle 5.30 per pregare. Sono una donna consacrata, poi la direttrice delle Cep. Sono solo l'attuale direttrice, perché tutto passa. Le Cucine non sono mie. Il mio referente è molto più in alto». Il tema la appassiona, si infervora leggermente, pur mantenendo il sorriso (seppur celato dalla mascherina). C'è una sorta di orgoglio di appartenenza. Lei è felice della sua scelta di vita, al servizio dei poveri e in comunione con Dio. «È bello essere suora». Ma la crisi di vocazioni? «Mi infastidisce sentir parlare di Chiesa in crisi. Io direi che la società è in crisi e la Chiesa ne anticipa spesso i tempi. Mi sembra che anche i partiti siano in crisi di vocazioni. Ed è vero che tanti religiosi sono avanti con gli anni, ma anche la nostra società sta invecchiando, Ci sono meno preti e suore. Però nelle famiglie ci sono anche meno figli». All'ingresso delle Cucine ci sono già i primi clienti. Sono in forte anticipo. Suor Albina esce a salutarli. «È presto, tornate dopo». Mi guarda sorridendo. «Vede queste persone. Qui trovano una dignità, un po' di calore. Una famiglia. Non sono diversi da noi. Forse un po' più sporchi, a volte puzzano, ma dovremo sempre pensare che poteva capitare anche a noi. Non siamo migliori, solo più fortunati. Una visita alle Cucine farebbe molto bene a tutti. Per riflettere». 

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