Sopravvive al naufragio e diventa calciatore. «Mio fratello mi lanciò l'ultimo salvagente e disse: "Salvati tu che hai un sogno"»

Domenica 7 Febbraio 2021 di Nicoletta Cozza
Karamoko Cherif, 20 anni, gioca in serie B con il Padova. La sua storia è diventata un libro edito da Mondadori
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PADOVA - I primi palleggi li ha fatti con un'arancia. E poi ha migliorato il tocco, di interno e di esterno ma rigorosamente a piedi nudi, lanciando verso un portiere immaginario un rotolino informe di pezzi di plastica, ma che dava il brivido del gol. Con il sogno di possedere un pallone e di diventare un calciatore. Ed è a quel sogno, diventato realtà alla fine di una lunga catena di vicende drammatiche, che deve la vita. Perché, quando nel mezzo di una tempesta è affondato il gommone che dall'Africa lo stava portando in Italia assieme al fratello, quest'ultimo, prima di morire inghiottito dalle acque gelide del Mediterraneo, quasi presagisse quello che poi sarebbe accaduto davvero allo stadio Euganeo di Padova, gli ha lanciato uno dei pochissimi salvagenti disponibili che, stremato, era riuscito ad afferrare, strappandolo a decine di braccia disperate in mezzo a un tumulto di onde e di morte. «Salvati tu che hai un sogno», gli aveva detto prima di sparire per sempre. Quelle ultime parole ora sono il titolo di un libro, scritto dal protagonista, Karamoko Cherif, con il giornalista Giulio di Feo e che verrà presentato questa sera durante la diretta online della Fiera delle parole, rassegna letteraria curata da Bruna Coscia. E a soffermarsi sulle pagine intrise di sofferenza sarà proprio lui, Karamoko, che ha 20 anni, vive in un centro di accoglienza patavino, perché dopo aver assaporato l'ebbrezza dell'esordio in serie B con la maglia biancoscudata, e con la prospettiva di fare la carriera tanto desiderata, ora è bloccato dalla burocrazia: non ha ancora i documenti a causa dei ritardi imposti dal Covid e sta aspettando da tre anni l'udienza per il permesso umanitario. Quindi non è tesserato, anche se quest'anno potrebbe giocare e mostrare dove, da mezzala o da esterno alto, potrebbe arrivare.
IL RACCONTO

Karamoko, che parla bene l'italiano anche se ha conservato la cadenza francese della Guinea da cui proviene, ogni tre ore prega per il fratello, per la mamma stroncata dall'Ebola, e per il papà, un imam ucciso dalle milizie cristiane. In Africa gli è rimasta solo la sorella Sitan che vede attraverso Skype e alla quale è legatissimo. Così come lo era ai genitori e al fratello, di cui non riesce a parlare senza trattenere le lacrime. «Penso continuamente a lui - racconta - lo sento sempre vicino, come quando in mezzo al mare gelato mi ha dato la possibilità di sopravvivere, sacrificando se stesso per me. Io ho perso i sensi dopo essermi infilato il giubbotto per restare a galla e mi sono svegliato a bordo della nave che aveva recuperato noi naufraghi. Ho chiesto di Mory, così lo chiamavo anche se il suo nome era Imorana, e mi hanno detto che tutte le persone tratte in salvo erano a bordo. Ho fatto il giro dell'imbarcazione senza trovarlo. Non riesco a descrivere il dolore che ho provato, uguale anche dopo sei anni. Mio fratello era tutto per me e una carezza sua mi riempiva dell'affetto che non potevano più darmi mamma e papà, morti prima di lui. Sono sopravvissuto per miracolo, ma averlo visto affogare mi ha segnato per sempre».
Il ragazzo, a 16 anni se n'era andato da Nzerekorè con un amico del fratello che invece era già in Libia. «Il viaggio è stato un inferno - sottolinea - prima per raggiungere il Mali e il Niger, e poi il Burkina Fasu, dove siamo stati bloccati varie volte e rispediti indietro. Alla fine siamo giunti ad Agadez e poi in Libia, ma siamo stati catturati, venduti e per due mesi sono stato prigioniero. All'inizio i rapitori per farsi dare il numero di un parente a cui chiedere il riscatto ci hanno fatto camminare sulla sabbia rovente che mi ha bruciato la pianta dei piedi, tanto che per un periodo mi spostavo stando inginocchiato, ma è niente di fronte ai ragazzi come me che ho visto ammazzare perché non avevano nessuno che poteva dare i soldi pretesi dai rapitori. Alla fine ho dato il contatto di mio fratello a cui hanno domandato 2mila dinar per liberarmi. Inoltre, non posso dimenticare i trasferimenti sui pick up, dove eravamo ammassati in 40, con la borraccia contenente 10 litri d'acqua attaccata al collo, sapendo che perderla significava morire, perché nessuno ti dà un goccio della sua. E sei finito pure se si guasta la macchina: nel deserto non vengono a soccorrerti. Per mesi ho mangiato solo gari, un impasto di farina e zucchero. Poi finalmente ho raggiunto mio fratello e sei mesi dopo siamo partiti per l'Italia. Quando il gommone ha imbarcato acqua, Mory si è prodigato per buttarla fuori: un lavoro faticosissimo, inutile, che gli ha tolto le forze. Aveva 21 anni ed era distrutto quando siamo finiti in mare. Mi ha detto «Dai, forza, prendi il salvagente, tu devi fare il calciatore e ce la farai. Poi il mare lo ha coperto, per sempre».
LA SVOLTA

Da solo, quindi, Karamoko è approdato in Italia, e dalla Calabria è stato accompagnato a Padova, dove ha iniziato a giocare nelle giovanili biancoscudate. «Un giorno - dice ancora - mi guardo allo specchio in spogliatoio e mi rivedo bambino. Avevo due gambe sottili come rametti d'albero, ora vedo le vene e le curve dei muscoli. Mi piace pensare sia l'eredità di Mory, posso essere forte come lui».
E in un capitolo descrive così l'esordio in prima squadra. «Un giorno entra nello spogliatoio il centravanti con i riccioli, quello della Primavera. Si allena in prima squadra da un mese. Urla: Signori e signore, un applauso: abbiamo qui un calciatore di Serie B. E mi indica. Lo guardo stranito.Oh, scemo, non hai visto?. Cosa?. Il tuo nome sulla lavagna. Sei convocato per la partita con il Livorno! Complimenti. Stavolta sì, urlo, mi aggrappo all'attaccapanni e lo agito come se fosse un compagno con cui esultare dopo un gol. Magari sto sognando. D'altronde era il sogno che inseguivo, no? Mi chiama il magazziniere. Bimbo, domenica vai in distinta. Che numero vuoi?. Non ci ho mai pensato. Non c'è un numero a cui sono affezionato. Tutto quello che avevo l'ho perso. Padre, madre, fratello, casa, Paese. Cosa mi resta? Io. E mia sorella Sitan. Io qui e lei a Nzérékoré. Mi manca, Sitan. Mi manca il suo sguardo severo ma buono. Il mondo è pieno di mostri, ma io e lei ci siamo ancora. «Si può avere il due?» gli faccio». 
E ora può dire: «Mi chiamo Cherif e gioco a pallone». Il sogno e il miracolo si sono avverati.
Nicoletta Cozza
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Ultimo aggiornamento: 18:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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