«Rugby, sport per donne, divertiamo più dei maschi»

Giovedì 6 Maggio 2021 di Antonio Liviero
Lucia Gai

Nel rugby italiano ci sono Cenerentoli, ma non Cenerentole. I maschi dopo 22 anni di 6 Nazioni e una trentina di professionismo arrancano al quindicesimo posto del ranking e non ne vincono una nel Torneo da oltre 6 stagioni. Le ragazze, invece, se la giocano con le più forti (23 successi e 2 pareggi in 68 partite) e non hanno dimestichezza con i cucchiai di legno: settime nella classifica mondiale davanti a Irlanda, Galles, Scozia e Sudafrica dopo aver assaporato per un paio di settimane l'ebbrezza del quinto posto. Quest'anno le ragazze del ct Andrea Di Giandomenico hanno chiuso il 6 Nazioni quarte, ma nel 2019 ne hanno vinte quattro e sono arrivare seconde battendo le francesi a Padova.
Risultati ottenuti a dispetto del loro status amatoriale: difficile competere con colossi come Inghilterra e Francia che hanno imboccato la strada del professionismo. Così c'è chi durante il giorno scarica container allo scalo ferroviario di Treviso, come la capitana dell'Italia Manuela Furlan, chi lavora in palestra o in farmacia, chi studia e chi, come Lucia Gai, 29 anni, una delle bandiere (73 caps) della mischia azzurra e del Valsugana Padova, lavora in una azienda biologica di Campodarsego.

Lucia gioca pilone destro, la pietra angolare del pack: «Ogni tanto riusciamo a fare bene» dice con modestia.


Che effetto fa in Italia essere settimi al mondo nel rugby?
«Ti fa sentire forte. Sembra incredibile».


Cosa c'è dietro questo rendimento che fa invidia ai maschi?
«Tanto impegno. Lo so, sembra banale ma è la verità. Nel 2017 abbiamo vissuto un anno buio nel 6 Nazioni e al Mondiale siamo arrivate none a causa di uno scivolone contro la Spagna nella fase a gironi. Ma abbiamo saputo rialzarci».


Quest'anno quarte.
«Siamo partite meglio di quanto pensassimo dopo un anno praticamente senza giocare. È vero, l'Inghilterra ci ha pettinate, ma abbiano fatto un buon primo tempo. Poi in Scozia siamo andate bene».


Speravate di arrivare terze: deluse del ko in Irlanda?
«Ci ha lasciato un po' di amaro. Avremmo dovuto giocarla sul nostro campo ma abbiamo accettato di andare in Irlanda per evitare alle nostre avversarie di dover fare due settimane di quarantena, che per chi lavora sono un problema. Il viaggio e il campo sintetico ci hanno un po' disturbato. Ma ci rifaremo, magari già in autunno nella qualificazione per i mondiali in Nuova Zelanda».


Qual è il segreto del vostro rendimento?
«Ci mettiamo tutto quello che abbiamo. Rispetto ad altre squadre il nostro punto di forza, oltre alla mischia, è proprio la compattezza del gruppo. Stiamo talmente bene insieme che potremmo stare in bolla tutto l'anno».


Com'è la vita da dilettanti?
«O studi o lavori. E devi fare due allenamenti al giorno, uno di pomeriggio e uno di sera, palestra più campo».


E per i raduni e le trasferte all'estero?
«Ferie. Dipende dal tipo di impegni. A volte basta il venerdì pomeriggio, altre serve una settimana, anche due».


Non vi pesano questi sacrifici?
«Li facciamo perché ci diverte giocare a rugby. La molla è lì».


Da quanto tempo lavora in campagna?
«Da quasi un anno sono collaboratrice agricola alla Magnolia, una ventina di ettari tra ortiu e frumento. Abbiamo la stalla, il pollame, le capre».


Perché ha scelto questo lavoro?
«Mio padre oltre alla passione per il rugby mi ha trasmesso quella per la terra. A Pesaro, dove vive la mia famiglia, abbiamo un grande orto. Durante il lockdown sono stata a casa e ho riscoperto il rapporto con la natura. Mi piace stare all'aria aperta. Così, anche se ho una laurea in scienze motorie, ho deciso di sfruttare il diploma di perito agrario».


Com'è la sua giornata tipo?
«Alle otto sono in azienda. Do da mangiare agli animali, pulisco la stalla. Poi ci sono le vigne. Certe mattine zappo, oppure vango. Ora sto facendo la patente del trattore. Dei giorni finisco alle 13, altri alle 17.30».


E poi ad allenarsi. E lo chiama divertimento?
«Ammetto che arrivo alla sera distrutta. Però, allenandoti, la stanchezza passa, cambia l'umore».


Come ha iniziato col rugby?
«A Pesaro quando avevo 6 anni. Mio padre giocava, ma mi ha fatto praticare molti sport dalla pallavolo al basket, dal nuoto al tennis. Ma il rugby non l'ho mai lasciato. E quando ho avuto 17 anni mi sono trasferita in Veneto, prima nel Riviera del Brenta e dal 2016 al Valsugana».


Le dà fastidio il pregiudizio che vuole il rugby uno sport da maschi?
«In Italia c'è una società ancora maschilista. Gente che non sa neppure che esistiamo. Ma aumenta chi, invece, ci riconosce e preferisce il nostro rugby a quelli maschile perché facciamo più volume di gioco. Le nostre partite sono più divertenti».


Secondo lei quali sono le caratteristiche femminili del rugby?
«La determinazione, penso. E la sensibilità per il gioco».


Dove potete arrivare con la Nazionale?
«Sarebbe bello giocare la semifinale di Coppa del Mondo. Ma prima pensiamo a qualificarci e a mantenere il nostro livello nel 6 Nazioni.Non sarà facile».
 

Ultimo aggiornamento: 7 Maggio, 08:52 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci