PADOVA - La Procura generale di Venezia ha impugnato il patteggiamento dei due manager di Grafica Veneta del 13 ottobre davanti al Gup Claudio Marassi. Il sostituto procuratore Antonio Giovanni De Lorenzi, entro quindici giorni dalla sentenza, ha evidenziato una anomalia nella decisione del giudice per l’udienza preliminare. L’ultima parola adesso spetta alla Corte di Cassazione, che dovrebbe esprimersi entro un anno.
IL MOTIVO
Il procuratore generale ha evidenziato come nella sentenza di patteggiamento manchi del tutto la confisca del provento di reato a carico due manager. Quindi quello che avrebbero intascato dallo sfruttamento del lavoro. L’ultima parola adesso passa alla Cassazione, che dovrà esprimersi entro un anno. Tuttavia la decisione dei giudici della Corte suprema non andrà in alcun modo a inficiare quanto già stabilito dal Gup lo scorso 13 di ottobre.
Sarà da appurare se si è trattato di una banale dimenticanza del giudice o se, invece, non è stato possibile applicare la confisca perchè i due manager non hanno agito per un proprio tornaconto essendo dipendenti di una azienda e quindi, in fase di indagine, non è stato dimostrato che attraverso le loro azioni illegali si siano arricchiti.
IL GUP
I due manager di Grafica Veneta accusati di sfruttamento del lavoro, hanno patteggiato sei mesi senza la sospensione della pena commutati in una multa di 45 mila euro a testa.
I due manager hanno ottenuto il patteggiamento della pena in fase di indagine perché, pur ribadendo la loro estraneità, hanno garantito una totale collaborazione con gli inquirenti. «I nostri assistiti - aveva dichiarato Pinelli - hanno respinto tutte le accuse a loro carico, perché non hanno commesso alcun tipo di reato».
Intanto si è concluso l’incidente probatorio, davanti al Gup Domenica Gambardella e alla presenza del pubblico ministero Andrea Girlando titolare delle indagini, per gli undici pakistani presunte vittime di caporalato da parte di padre e figlio titolari della cooperativa BM Service di Trento. Schioccanti i loro racconti in aula. Almeno uno di loro ha ricordato delle minacce subite dalla sua famiglia in patria per convincerli a ritirare le accuse. «In Pakistan i caporali sono arrivati in sei dalla mia famiglia e uno era armato di pistola» ha dichiarato davanti al giudice.