La pasta fresca italiana dei fratelli Artusi invade la Francia. «Quella volta che papà mi disse: o vai a lavorare o te copo»

Lunedì 3 Aprile 2023 di Edoardo Pittalis
La pasta fresca italiana dei fratelli Artusi invade la Francia

I fratelli Enrico e Alberto Artusi, titolari del pastificio omonimo si preparano a conquistare il mercato transalpino. «Una catena della grande distribuzione ha scelto i nostri prodotti e li ha apprezzati. Peccato che non si trovino operai. In assenza li formiamo noi. Cerchiamo cibi dop e igp di qualità per confezionare nuovi prodotti da lanciare sul mercato».

La nuova invasione della Francia è questione di giorni: le armi sono tortellini e tagliatelle e verranno da Padova. Il Pastificio Artusi ha appena chiuso un accordo con Grand Fráis, catena di distribuzione di soli prodotti alimentari freschi, con trecento punti vendita. Il viaggio incomincia da Casalserugo a sud della provincia, i confini disegnati dal Bacchiglione, e passa per il grande negozio sotto il Salone di Padova, nel cuore del mercato.

Il Pastificio Artusi, nato nel 1998, a Casalserugo ha 30 dipendenti e produce 4 tonnellate di paste fresche e farcite al giorno.

Fattura più di 3 milioni di euro, in un anno è cresciuto del 30%, esporta oltre la metà della produzione

A reggere l'impresa sono due fratelli: Enrico e Alberto Artusi, padovani, 47 anni il primo, 50 il secondo.

Cosa frena i nuovi addetti in un settore così particolare?
«Non c'è più la passione per il prodotto, i giovani non riescono a inserirsi nel mondo della pasta fresca che è un lavoro pulito, non faticoso. Non offriamo stipendi da stagista, un nostro dipendente normale parte da una base di 1300 euro. La gente si lamenta per le troppe ore di lavoro, ma la nostra non è una fabbrica che può programmare tutto; facciamo un prodotto con una scadenza corta, soggetto a temperature, a stagionalità».


I fratelli Artusi come sono diventati pastai?
«È il primo vero mestiere che abbiamo imparato, anche se nessuno di noi da ragazzino pensava di diventare un pastaio. Papà Luigi era elettricista, mamma Assunta casalinga. Siamo cresciuti a Padova a Ponte San Nicolò, un'infanzia bellissima, era tutto diverso, si giocava per strada. Siamo quattro fratelli e c'erano pochi soldi, lavorava solo il papà in un'azienda importante, faceva molte trasferte per far crescere tutta la famiglia senza troppi sfizi».

Alberto Artusi


Enrico che studente era?
«Non avevo molta voglia di studiare, spero che i miei figli non vedano mai le mie pagelle. Frequentavo l'Alberghiero di Abano, ma mi piaceva di più la manualità, così ho lasciato e sono andato a lavorare in una tipografia di Padova. Alberto lavorava in un pastificio e papà mi ha mandato nello stesso posto, "Tortellini Roberto", sempre a Padova. Ho fatto cinque anni di apprendistato, fino al 1998, quando abbiamo deciso di metterci per conto nostro".


E l'Alberto studente?
«Ho studiato da elettromeccanico al Bernardi, ma dopo due anni di bocciature papà mi ha detto o vai a lavorare o te copo. Ho incominciato facendo nastri autoadesivi, poi ho cambiato con le lavastoviglie, nemmeno quello era il mio mestiere. Un giorno mamma torna a casa dopo aver fatto la spesa dal casoin e mi dice che il pastificio "Roberto" cerca un operaio: ci sono rimasto dieci anni. Il lavoro era faticoso, non c'erano le macchine di oggi, si dovevano rompere le uova uno per uno, non esisteva il pastorizzato. Un lavoro enorme anche a livello fisico, si alzavano sacchi di farina e semola da 50 chili.


Quando è incominciata l'avventura degli Artusi?
«Abbiamo investito le liquidazioni, ci ha aiutato papà, una banca ci ha dato una mano, il nostro primo mutuo è stato di 200 milioni di lire, abbiamo vissuto gli ultimi anni della lira e un po' li vediamo con nostalgia. Il salto è stato quando abbiamo preso il negozio sotto il Salone, ci ha facilitato ad avere la liquidità aziendale per investire. Adesso stiamo cercando di fare quel passo per diventare un'azienda più matura: investire sulle risorse umane però formandole. L'obiettivo è crescere, diventare più adulti sul mercato e restare un'azienda familiare. Oggi facciamo tutta la linea di pasta lunga, il tortellino di Bologna, tortellini, i cappelletti, fagottini, raviolini; tutta la linea con i ripieni stagionali e tutta la linea di pasta fresca fatta a mano. Siamo passati da 400 chili al giorno a 300 chili all'ora».


Oggi il mercato che problemi ha?
«È in fase evolutiva, tiene bene, la pasta ripiena è sempre più richiesta. Poi c'è la grande distribuzione organizzata, è bellissima ma non è gestita come all'estero: ho visto in Francia, lì ci hanno aperto le braccia, prima hanno assaggiato, offerto spunti per migliorare il prodotto, poi si è parlato di produzione e di prezzo. In Italia si parte dal contrario. Con la pandemia abbiamo avuto uno choc importante, avevamo tutto il fatturato nella ristorazione, ma l'unico ristorante nel mondo dove potevamo esportare era a Hong Kong. Da lì abbiamo capito che dovevamo cambiare la strategia dell'azienda, diversificare. Abbiamo superato la pandemia e aspettato che riprendesse il mercato. Avevamo celle di stoccaggio piene di prodotti che scadevano e abbiamo regalato tutto agli chef che fornivano pasti a medici e ospedali, onlus, protezione civile, mense dei poveri, parrocchie. Buttare via per noi era e resta un peccato».

Enrico Artusi


Come siete usciti dalla pandemia?
«Con l'evoluzione dell'azienda: il mercato ci sta riconoscendo come un prodotto del territorio, totalmente made in Italy, siamo soci di 12 consorzi tutela dop e igp. Su tutti i ripieni siamo gli unici autorizzati a mettere il sale dolce di Cervia, integrale, non raffinato chimicamente, il "Sale dei Papi", l'unico per Parmigiano e Prosciutto di Parma. Il personale a questo punto lo formiamo noi, facciamo i corsi perché stiamo per rivoluzionare il mercato della pasta farcita: immetteremo il prodotto "co-branding" unione tra due aziende, pasta ripiena ma vegetale. Ci lavoriamo da tempo, nelle prove siamo arrivati a creare tre nuovi prodotti altamente qualitativi sia per aspetto e sapore, sia nutrizionale. A base di verdure, un prodotto completamente vegetale: il mondo chiede prodotti sempre più ecosostenibili. Continuiamo naturalmente la produzione tradizionale, ma vogliamo andare verso il futuro».


Sarà questo il mercato di domani?
«Sarà una sfida, dobbiamo continuare a ricercare prodotti dop e igp da trasformare in ricette e gli agricoltori devono darci la possibilità di usare questi prodotti. Facciamo fatica a trovarli, ci piacerebbe fare i ravioli con le castraure ma non ci sono cotte e lavorate come occorre a noi. Se il prodotto tramonta, esce dalla storia, penso al broccolo fiolaro di Creazzo nel Vicentino, buonissimo ma c'è pochissima quantità. Ci sono esempi virtuosi, come quello del radicchio di Chioggia».

Ultimo aggiornamento: 4 Aprile, 12:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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