Scopre di avere il Parkinson. Emanuele, da ingegnere nel mondo della Formula Uno e dei GP a mago Foto

Lunedì 5 Dicembre 2022 di Edoardo Pittalis
Emanuele Borsetto

Le tre vite di Emanuele Borsetto, ingegnere elettronico padovano di 61 anni che vive a Trebaseleghe il paese che segna il confine di tre province; tre come le sue vite. La prima vita è nel mondo della Formula Uno e dei GP, per decenni perfeziona e mette a punto strumenti che aumentano la velocità di auto e moto. La trascorre tra Mansell e Prost, tra Max Biaggi e Valentino Rossi. Si ferma ai box quando arriva la seconda vita che inizia il giorno in cui gli dicono che ha il Parkinson. Una malattia di quelle che non possono mai migliorare. E' allora che incomincia la terza vita di Emanuele che da ingegnere si trasforma in mago, insegue il suo sogno di bambino, gli piace stupire la gente e farla sorridere.

Cambia anche nome, è Mizar, come una stella dell'Orsa Maggiore; gira l'Italia dei teatri, delle piazze e delle feste aziendali. Ed è stato vincente per la mia serenità, dice. Ogni volta parte da Trebaseleghe, terra di tanti fiumi e anche di colossi industriali: dalla Moncler a Grafiche Venete. Sposato con Roberta, il figlio Riccardo insegna matematica all'università.


Quando nasce la passione per l'elettronica?
«Papà Gino, prima di fare il geometra negli anni del boom edilizio, era radioriparatore e aveva la casa piena di valvole e tubi catodici. Il primo televisore che ho visto l'ho smontato e rimontato. Praticamente l'elettronica l'ho scoperta così. Mamma Adriana ha 86 anni, mio fratello è cuoco in una comunità per disabili a Tolmezzo. Siamo cresciuti ad Albignasego, parrocchia e amici; per anni d'estate ho fatto volontariato con la Caritas di Udine. Quando mi hanno chiamato a fare il militare, ho scelto il servizio civile come obiettore di coscienza. Mi sono ritrovato in Irpinia per il terremoto del 1980, da geometra ero una specie di direttore dei lavori tra sgomberi e ricostruzione. È stata un'esperienza eccezionale. Ero con un amico che poi è diventato missionario, don Giancarlo: siamo stati insieme dall'asilo all'università. Con lui, quando è venuto in visita Papa Giovanni Paolo II, all'Appiani di Padova abbiamo realizzato un manto di foglie di polistirolo».


Come è arrivato alla Ferrari?
«Qualche giorno prima della tesi, a Padova in facoltà avevo visto appesa alla bacheca una salvietta sulla quale era scritto: La Ferrari GeS cerca un ingegnere elettronico. Rivolgersi al signor Fantasia. Segue numero. Tutti a ridere, quel nome, Fantasia, faceva pensare a uno scherzo. Io chiamo lo stesso e mi risponde Fantasia in persona, spedisco il curriculum e proprio il giorno della laurea ricevo una telefonata: Appena può venga a Maranello per definire il contratto di lavoro. Mi sono sposato e siamo andati a vivere a Maranello, era un mondo diverso dal nostro, differenti le relazioni sociali. Alla Ferrari sono arrivato con un gruppo di giovani che doveva dare il cambio alla generazione precedente: l'elettronica per la prima volta entrava a far parte del veicolo che sino ad allora era essenzialmente meccanico».


In che cosa avete cambiato la rossa di Maranello?
«Nelle sospensioni attive e nel cambio elettronico al volante. La sospensione classica, che è una molla e un ammortizzatore, veniva sostituita da un pistoncino idraulico che emetteva segnali a un lettore vicino alle ruote: tramite quei segnali con un algoritmo si rendeva ottimale l'aderenza delle ruote all'asfalto. Poi abbiamo creato l'alettone variabile. Mansell ha fatto la prima gara col cambio elettronico a Rio, durante le prove si è rotto, abbiamo lavorato di notte e affinato il software in pista. Ha vinto e da lì abbiamo preso coraggio. Sono entrato con Mansell, poi ho lavorato per Berger, Prost, Alesi. Prost è stato fondamentale anche come pilota di riferimento per le modifiche da fare sulle auto: aveva una sensibilità particolare».


Dalla rossa a Rossi, Valentino
«Dopo cinque anni, mi ha chiamato l'Aprilia come responsabile elettronico delle corse. Era l'Aprilia di Ivano Beggio ed era il periodo di Max Biagi che ha aperto la fila dei grandi piloti, da Harada a Capirossi a Valentino Rossi che aveva 17 anni. All'epoca c'erano le moto a due tempi, siamo arrivati subito ai quattro tempi dotati di un motore le cui performances erano possibili solo attraverso l'elettronica».


Biagi e Rossi: come erano visti da vicino?
«Valentino Rossi era come se lo immaginava la gente, scherzoso, competitivo. Capace di sentire il motore e sensibile nel suggerire le modifiche giuste. Divertente: una volta in Francia, dopo una vittoria importante, ha cercato fino a trovarlo un ristorante che servisse i tortellini alla bolognese, poi gli è caduto il cellulare dentro il piatto! Biagi aveva un carattere diverso, chiuso; ma è stato il primo a curare l'immagine del pilota. La migliorava anche con i trucchi: per la frenata nei posti giusti, davanti alle telecamere, studiava gli effetti nella galleria del vento. Valentino correva con spontaneità, con Biagi è stato un duello all'ultimo sangue».


Ancora moto con la Ducati?
«Dopo 10 anni all'Aprilia sono passato alla Ducati, ho cambiato ruolo, avevo funzione di dirigente e la responsabilità delle scelte tecniche riguardanti l'elettronica, con Claudio Domenicali. Pensavo soprattutto alle moto per clienti che vogliono mezzi con alta prestazione e che distinguono la Ducati dalle altre per la storia alle spalle. L'acquirente si sente potenzialmente affine al pilota che gareggia».


Poi la seconda vita dell'ingegnere?
«A cinquant'anni scopro che ho il Parkinson e che sono di fronte a una prospettiva di una graduale riduzione delle capacità di impegno. Adesso non potevo più fare orari spinti, assumere incarichi pesanti, dirigere equipe di sessanta ingegneri. Praticamente sono entrato in pensione anticipata. Il Parkinson rallenta i movimenti e le conseguenze vanno dalla difficoltà nella guida alla perdita delle abilità manuali. C'è compensazione con i medicinali, ma è una malattia degenerativa. Si correggono i sintomi con le medicine, ma allo scadere degli effetti devi fermarti e prendere altre pastiglie. Se le cose sono ben sovrapposte per anni puoi avere una vita quasi normale».


A questo punto l'ingegner Borsetto fa una magia e cambia di nuovo vita?
«Quasi contemporaneamente è entrata la magia. Divertire la gente, portare il sorriso è stata una cosa che mi ha sempre affascinato. Quando lavoravo alla Ducati, ho letto di un corso a Bologna per principianti di magia e mi sono presentato: mi hanno dato un libro dicendomi di leggerlo e di tornare dopo sei mesi. Sono tornato. Nei giochi di prestigio il fatto di essere ingegnere abituato a trovare soluzioni nuove, mi ha agevolato. Ho incominciato con un piccolo spettacolo di 15 minuti, ho partecipato a concorsi e conferenze dove ci si scambiano trucchi, consigli. Arrivano il Mago Forest e Raul Cremona. Anche i grandissimi come Silvan, lui ha portato in tv la magia in Italia e gli siamo tutti riconoscenti. Il mio numero s'intitola Meno Internet, più Cabernet, magia e comicità, mi ha fatto vincere un concorso nazionale a Roma».


Come è andata al tempo del Covid?
«Facevo una trentina di spettacoli all'anno prima del Covid, in centri vacanze, villaggi turistici, feste aziendali, anche dove ho lavorato. Un'ora di esibizione con una partner, nome d'arte Margot, si chiama Paola Lazzaretto, un'amica d'infanzia che nella vita fa l'assistente sociale. È la storia di un ubriaco che moltiplica le bottiglie di vino. Abbiamo ripreso, speriamo di mantenere il ritmo, ci sono contratti per quaranta serate. Funziona a tutte le età, dagli asili alle case di riposo. Soprattutto il contatto col pubblico è fondamentale, mi permette di sentirmi tanto forte. Con la malattia ho adeguato i numeri, un grande lavoro di cesello, ho limitato la prestidigitazione, ho scelto gli orari giusti e dopo le medicine giuste. È questa la mia serenità».

Ultimo aggiornamento: 11:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci