Gaya, 36 anni, mamma e chirurgo: «In sala operatoria sono in prima linea»

Lunedì 8 Giugno 2020 di Edoardo Pittalis
Gaya Spolverato
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PADOVA - L'ultimo acuto lo ha lanciato qualche giorno fa a nome della Women in Surgery Italia, l'associazione chirurghe italiane. Ha scritto al presidente del Consiglio Conte chiedendo una rappresentanza adeguata: «Siamo donne, chirurghe e medico, coinvolte in prima linea nella cura dei pazienti Siamo scienziate, deluse dalla decisione di non aver ricevuto alcuna rappresentanza nel Comitato Tecnico Scientifico nominato per l'emergenza, come se non avessimo competenze adeguate e tutto il nostro lavoro di ricerca non fosse mai esistito».
Gaya Spolverato, padovana, 36 anni, lunga esperienza negli Stati Uniti, opera nella Clinica chirurgica I dell'ospedale di Padova e insegna Chirurgia al Bo. Ha fondato l'associazione della quale ora è presidente: «Siamo 130 distribuite in tutta Italia, molte sono messe in un angolo. Ma la chirurgia italiana è destinata a cambiare moltissimo, le studentesse di medicina sono più della metà del totale».
C'è ancora chi non gradisce di essere operato da una donna?
«Un paziente che dovevo operare mi ha domandato: Ma lei è capace di farlo?. Il mondo non è abituato a vedere la chirurga che fa un intervento complesso, si sente rassicurato dallo stereotipo del vecchio chirurgo. E non è un problema solo italiano, succede anche negli Usa. Solo in Grey's Anatomy operano indistintamente uomini e donne, ma quelli sono telefilm».
Lei da bambina voleva fare il medico? 
«Sono cresciuta in una famiglia con un fratello col diabete giovanile e mia nonna che aveva problemi di salute. Ero abituata a vedere gente star male, era parte della vita. E mia madre era una persona che dava una mano a chi stava male; una volta mi ha portato a fare una medicazione a una signora grave e non era il posto più adatto per una bambina. I miei genitori sono nati dopo la guerra, sono andati a lavorare quando avevano otto anni. Vivono ad Albignasego, hanno sempre aggiustato orologi e negli anni d'oro hanno pure aperto una gioielleria, sotto casa. Siamo tre figli, io sono decisamente la più piccola: Gianluca ha 14 anni più di me, è avvocato; Manuel 12, porta avanti la tradizione di famiglia».
Come è cresciuta Gaya in quella periferia di Padova degli Anni '80?
«Da bambina vivevo con nonna Rosina, è stata lei, che pure aveva fatto appena la seconda elementare, a insegnarmi più cose di tutti. I miei sono molto credenti, così asilo e scuole le ho fatte dalle suore. La mamma aveva atteso tanto una femminuccia, mi vestiva come una bambola e ho fatto danza, pianoforte, solo cose che fossero da bambina. Il mio desiderio era quello di fare sport, mi piace da allora molto la corsa, certi anni ho fatto anche 80 chilometri alla settimana. Da piccola col gruppo podistico dell'Avis di Albignasego ogni domenica andavo con papà a correre nei paesi e questo mi ha permesso di vedere e conoscere il territorio. Sono cresciuta un po' in fretta perché avevo davanti la visione di miei fratelli che erano già grandi e perché a casa mia c'era una cultura un po' patologica in cui tutti dovevano essere impeccabili, soprattutto nel lavoro e nello studio. D'estate mi mandavano in Inghilterra a studiare, per loro non esisteva vacanza. Mio papà mi svegliava ogni mattina alle 6 perché dovevo essere pronta prima degli altri».
Poi la scoperta della Medicina all'università?
«Gli anni del liceo, al Barbarigo, erano stati difficili, anche per il contrasto con certo rigore dell'educazione cattolica. La mia vita è cambiata quando sono riuscita a entrare a Medicina: è stato molto bello e avevo questa sfida di metterci il meno tempo possibile e imparare il maggior numero di cose. Mi distraeva poco solo lo sport, per qualche anno ho fatto atletica leggera con la squadra di Assindustria: corsa a ostacoli e me la cavavo bene».
Come è nata l'esperienza americana?
«Un'estate ho avuto la possibilità come studente di andare in California, a San Diego, in un grande ospedale. Poi si è presentata una nuova occasione: avevo concluso gli esami sei mesi prima della laurea e il professor Pucciarelli, che oggi è il primario dove lavoro e col quale dovevo fare la tesi, mi ha spedito a New York da un suo amico chirurgo nel primo centro oncologico al mondo. Nel gennaio 2010 approdo in America senza capire bene cosa fare. Dovevi essere presente dalle 5 del mattino per quattordici ore di fila: il medical student lì è inquadrato a tutti gli effetti, la tua presenza è contata, in ambulatorio e in sala operatoria. Ho lavorato con i chirurghi che si occupavano di cancro, è stata una grande esperienza, al di là della barriera linguistica con i pazienti che venivano da ogni parte degli Stati Uniti e che parlavano in cento modi diversi. Anche lì andavo a correre al Central Park, la corsa è sempre stata la lente che mi permette di vedere la città e la gente. Torno e mi laureo e inizia un anno in cui devo capire da che parte del mondo straniero voglio stare, come dicono gli americani».
Per questo è ritornata negli Stati Uniti?
«Appena entrata nella scuola di specializzazione in chirurgia generale, ho avuto la fortuna di incontrare una figura di riferimento a un corso organizzato a Cernobbio dai chirurghi italiani del Nord America. Ho conosciuto Tim Pawlik direttore chirurgico oncologico di Baltimora e in pochi mesi sono partita per gli Usa, dopo aver superato il grosso esame di abilitazione per lavorare come medico negli Stati Uniti. A Baltimora è iniziato un percorso per me fondamentale, con la ricerca sul tumore al fegato e al pancreas. Anni spesi in maniera meravigliosa, dedicati interamente al lavoro. In un congresso in Corea vinco un premio e conosco il primario di chirurgia del pancreas a Verona, mi dice che se avessi cambiato idea avrei potuto cercarlo. Un venerdì mi comunicano che è morta la nonna alla quale ero legatissima e mi accorgo che perdevo tanto a restare lontana. Con quel dubbio vado ad Harvard per un colloquio di lavoro, il più importante. Chiamo mio padre e gli dico che sono ad Harvard, lui non aveva idea di cosa fosse, ma risponde: Sì, sì, va bene. Ma quand'è che torni a casa?. Era il 2015, ho chiamato Verona».
È' stato quello l'anno che le ha cambiato la vita?
«Ho conosciuto Sergio che poi sarebbe diventato mio marito, un architetto, diversissimo da me, non lascerebbe mai l'Italia e mi ha fatto capire che bisogna fermarsi per guardare attorno. Due anni a fare la spola in treno tra Padova e Verona. Sono ritornata a Padova passando, però, di nuovo per un altro anno a New York nello stesso ospedale. Volevo diventare indipendente chirurgicamente, volevo essere una buona chance per i miei pazienti, volevo vincere una Fellowship internazionale in chirurgia oncologica, una cosa che danno ogni anno a una persona su un migliaio. E l'ho vinto! Ho finito la mia specialità in chirurgia a Verona e una settimana dopo ero a lavorare a New York. Fino a quando Pucciarelli, in America per un congresso, mi dice che c'è un posto a Padova nella clinica chirurgica. Stava anche per nascere mio figlio Achille che adesso ha un anno».
È difficile essere donna in sala operatoria? Quanti interventi effettua?
«Fino adesso ne ho fatti più di 1500, almeno quattro o cinque alla settimana. Difficilissimo in termini orari, con un bambino piccolo che passa la giornata senza di te: i miei genitori gli garantiscono quello che a me ha garantito nonna Rosina. Difficoltà anche perché spesso non viene riconosciuta la presenza della donna nonostante ormai ce ne siano tante. Bisogna continuamente dare prova di sé, devi mostrare ogni giorno quanto vali e che vali più degli altri. Sono estremamente meritocratica, sono contenta di insegnare anche per questo. Vengo da una famiglia molto concreta: papà aggiusta orologi che non funzionano e dopo funzionano; io opero un paziente che il tumore e dopo non lo ha più.
Edoardo Pittalis
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Ultimo aggiornamento: 11:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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