PADOVA - Nel corso dell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada si è ridotto di più del 70% in superficie e di oltre il 90% in volume e, ad oggi, esso è grande circa un decimo rispetto a cento anni fa. Perché? Si poteva prevedere la tragedia dei giorni scorsi? E ancora, dobbiamo aspettarci altri crolli? A spiegare la situazione sono i ricercatori del Gruppo di lavoro glaciologico-geofisico per le ricerche sulla Marmolada delle università di Padova e Parma e dell'Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale, che da vent’anni studiano il ghiacciaio.
Il ghiacciaio della Marmolada
Il ghiacciaio della Marmolada è il più grande ghiacciaio delle Dolomiti ed è un fondamentale termometro dei cambiamenti climatici per la sua rapida risposta anche alle piccole variazioni di precipitazioni e temperatura. Il ghiacciaio è stato costantemente osservato sin dai primi anni del secolo scorso da parte del Comitato Glaciologico Italiano (CGI), che oggi si occupa del rilevamento di circa 200 ghiacciai alpini. Il CGI, sin dalle sue origini che risalgono al 1895, ha contribuito alla raccolta di dati quantitativi, fotografie, rilievi, progressivamente messi a disposizione della comunità scientifica e civile. Tutte le relazioni annuali redatte a partire dalla fine del secolo XIX sono accessibili e liberamente scaricabili dal sito istituzionale. Il ritiro ha mostrato una progressiva accelerazione, tanto che negli ultimi 40 anni la sola fronte centrale è arretrata di più di 600 m risalendo nel contempo in quota di circa 250 metri. Tra le principali cause, spiegano i ricercatori, vi è certamente l’aumento della temperatura e in particolare, nella zona della Marmolada, della temperatura minima invernale che nel corso di 35 anni di osservazioni è aumentata di circa 1,5 gradi.
Il crollo del 3 luglio
La valanga ha interessato un lembo residuale del ghiacciaio centrale che occupa una piccola nicchia a ridosso della cresta sommitale sotto Punta Rocca formando un “ghiacciaio sospeso”.
Era prevedibile?
Prima del crollo non si sono osservati dei segnali evidenti di un collasso imminente, riferiscono gli studiosi. Salvo rarissimi casi, nei ghiacciai, a differenza delle frane, non vi sono sistemi di allerta che misurano movimenti e deformazioni in tempo reale. I crepacci, che hanno avuto un ruolo fondamentale nel distacco, erano visibili già da diversi anni e di per sé fanno parte della normale dinamica glaciale.
Dobbiamo aspettarci altri crolli?
Il distacco di seracchi è un fenomeno frequente nei ghiacciai e fa parte della normale dinamica glaciale, più raro il caso di collassi in blocco come quello verificatosi in Marmolada. Il ritiro e il riscaldamento determinano un aumento della frequenza degli eventi e in generale un aumento della pericolosità delle fronti glaciali. L’osservazione annuale di molti ghiacciai è stata recentemente abbandonata proprio per l’incremento delle condizioni di rischio alle fronti glaciali. Tuttavia, non tutti i ghiacciai presentano le medesime condizioni di pericolo che variano in funzione della temperatura, ma anche della morfologia, delle pendenze, delle dimensioni e di altri parametri. Ogni ghiacciaio va studiato singolarmente individuando i rischi specifici che si sommano a quelli già insiti nella frequentazione dell’ambiente alpino. Collassi di intere porzioni di ghiacciaio si sono registrati anche negli anni recenti in diverse aree delle Alpi. Solo un mese fa due alpinisti sono deceduti per il distacco di seracchi dal Grand Combin. Il ghiacciaio Planpicieux (Monte Bianco), sottoposto a monitoraggi dal 2020, aveva di fatto messo a rischio la sottostante Val Ferret. Un evento molto simile, anche nelle dinamiche, a quello della Marmolada si è verificato nel luglio del 1989 nel ghiacciaio superiore di Coolidge (Monviso), fortunatamente senza vittime. L’analisi della cartografia storica della stessa Marmolada evidenzia la probabile presenza di analoghi distacchi che potrebbero essersi verificati sul finire dell’800.
L'impatto del cambiamento climatico
Il ritiro dei ghiacciai è la manifestazione più evidente di un cambiamento climatico in atto i cui effetti sono visibili anche in molti altri fenomeni che interessano il pianeta. Ciò che desta maggior preoccupazione è la progressiva accelerazione del ritiro glaciale, che impone una revisione degli scenari climatici più ottimistici predisposti dagli scienziati. Cosa possiamo fare? Nel lungo termine l’unica azione efficace è quella di trovare un accordo globale che consenta la riduzione dell’emissione di gas-serra per mitigare il riscaldamento terrestre. Nel breve-medio termine si può solamente ricorrere a strategie di adattamento che consentano la razionalizzazione delle risorse e una maggiore efficienza nella realizzazione delle infrastrutture, nei processi industriali e nei modelli sociali. Le previsioni sono sempre un esercizio piuttosto difficile quando si parla di sistemi naturali. Se saranno confermati gli attuali andamenti anche nei prossimi anni, è molto probabile che il ghiacciaio della Marmolada scompaia prima del 2040. Se dovesse rallentare il processo di riduzione della massa glaciale, in ogni caso è improbabile che possa conservarsi oltre il 2060. Solo pochi anni fa i modelli prevedevano una vita del ghiacciaio per altri 100 o 200 anni. È evidente quindi come i modelli predittivi debbano essere costantemente aggiornati e migliorati e come sia fondamentale garantire (e possibilmente migliorare) il monitoraggio dei ghiacciai con particolare attenzione alle loro variazioni volumetriche.
Il Gruppo di studio
Il Gruppo di lavoro glaciologico-geofisico per le ricerche sulla Marmolada è composto dal professor Aldino Bondesan, glaciologo dell’Università di Padova, responsabile del Comitato Glaciologico Italiano (CGI) per il coordinamento della campagna glaciologica annuale nelle Alpi orientali, dal professor Roberto Francese, geofisico dell’Università di Parma e membro del CGI, da Massimo Giorgi, Stefano Picotti, geofisici dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale.
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