Crivellaro: «Dalla Cina all'editoria, un lavoro di passioni»

Lunedì 12 Dicembre 2022 di Edoardo Pittalis
Crivellaro: «Dalla Cina all'editoria, un lavoro di passioni»

La Cina non era vicina come prometteva nel 1967 il film di un giovane Marco Bellocchio. La Cina era, anzi, davvero lontana, ci volevano giorni di viaggio in aereo facendo molte tappe. Ed era ancora più lontana quanto a modo di vivere ce l'avevano raccontata i grandi inviati, da Moravia a Parise a Enzo Biagi. Per il primo oltre la Grande Muraglia c'era il vuoto. Per lo scrittore veneto le molte contraddizioni della sua Cara Cina diventavano fascino. Biagi lo fece anche con le immagini della Rai e si avvicinò con umiltà a quel paese immenso e sconosciuto. Luigi Crivellaro sapeva questo della Cina quando ci arrivò per vendere e mettere in funzione impianti che producevano filati sintetici.

Mao era appena morto e i successori avevano inaugurato la politica delle porte aperte. Il grande timoniere era diventato un'icona pop disegnata da Warhol e battuta all'asta a prezzi sempre più alti. Si trattava di entrare nell'inesplorato mercato della grande Cina e, a suo modo, l'ingegnere padovano Crivellaro è stato un pioniere.

Da quegli anni 70 di viaggi in Estremo Oriente ne ha fatto tantissimi, ha venduto in giro per il mondo impianti chiavi in mano per centinaia di milioni di dollari. Ha trovato il tempo anche di scrivere libri di poesie, di diventare editore, di combattere un tumore, di ritirarsi in pensione appena compiuti gli 80 anni per riprendere a viaggiare. La storia incomincia nella frazione di Santa Maria di Veggiano, nel Padovano, in piena guerra. I Crivellaro, padre e madre insegnanti elementari, erano sfollati in campagna dallo zio Natale.

Dice che i suoi primi ricordi sono proprio di guerra, ma aveva due o tre anni?
«È proprio così: ricordo i tedeschi che sono arrivati in questa piccola fattoria, i fucili appoggiati al camino e un soldato tedesco che mi ha preso in braccio e mi ha regalato un cioccolatino. Noi bambini siamo andati a dormire nella casetta di una vedova in mezzo ai campi, eravamo 14 cugini. Il pavimento era in terra battuta e sotto era scavato il rifugio per sfuggire ai bombardamenti, ma se cadeva una bomba non si salvava nessuno. A guerra finita ci siamo spostati di poco, al primo piano della scuola elementare dove insegnava mia mamma. D'estate facevamo il bagno nel Bacchiglione, c'era una spiaggetta che adesso è scomparsa».

Come è stata l'infanzia in quel dopoguerra?
«Mamma quando aveva lezione mi portava in classe, ho imparato prestissimo a leggere e scrivere. Lo ricordo come un periodo beato, la scuola era di fronte alla chiesa, andavamo a tirare le corde delle campane e anche a rubare ciliegie nel giardino del prete. Di automobili ne passava una alla settimana, la strada era il nostro regno, i genitori ci chiamavano all'ora di pranzo e all'ora di cena. Siamo rimasti lì fino al 1951, poi ci siamo spostati alla periferia di Padova, dove mio padre aveva acquistato una casetta coi soldi prestatigli dal fratello prete. Siamo arrivati nella nuova casa ai primi di novembre sotto una pioggia battente, la stessa pioggia dell'alluvione del Polesine».

Tutti a Padova per studiare?
«Ho fatto le medie alla Mameli' di Padova, in aule di fortuna, poi il classico al Tito Livio: giocavo a calcio nel Centro Sportivo Italia, mezzala destra, 16 anni mi sono rotto una gamba e la mia carriera è finita. Sono rimasto uno sportivo, ho fatto sci di fondo e non mi sono perso una Marcialonga. Sono uscito dal liceo nel 1960, mio padre aveva già deciso: Ti fa' l'ingegnere!. Mi sono iscritto a ingegneria chimica e, appena laureato, avevo decine di proposte di lavoro. Ero già fidanzato con Caterina, trevigiana, che poi nel '68 sarebbe diventata mia moglie; era stata dieci anni a New York per studiare. Prima ho lavorato a Milano in un'azienda metalmeccanica che fabbricava macchinari e impianti di riscaldamento per industrie per produzioni di resine. Poi, stanco di fare il pendolare, a Treviso nel settore dei filati continui per tappeti e moquettes. Abbiamo esportato e messo in funzione in Cina il primo impianto per la produzione di filo di nylon».

Ed è incominciata l'avventura cinese?
«Siamo entrati come fornitori di tecnologia. Lo stabilimento era a 50 chilometri da Pechino, si viveva in una foresteria molto modesta, non c'erano nemmeno i gabinetti, solo latrine all'aperto, e abbiamo minacciato di andarcene se non costruivano dei bagni. La mattina presto gli altoparlanti diffondevano ovunque musiche ballabili e alle sette la gente in bicicletta si fermava e incominciava a ballare ai bordi delle strade. Non era facile come adesso andare in Cina, il volo faceva molte tappe, i bagagli li portavano all'aereo con triciclo a pedali, e per uscire da Pechino avevi bisogno di un passaporto speciale. Nei primi anni ho visto un paese ancora medievale, ricco di tradizioni ma con una povertà indescrivibile. L'ho visto cambiare in pochissimo tempo, specie nelle grandi città, da Pechino a Canton. Un grande cambiamento pure nelle persone, spinte anche dalla politica del partito sono diventate più attente ad arricchirsi, a convertirsi in cino-occidentali. Con le tecnologie arrivate hanno industrializzato il paese e creato una classe media. Parlavo inglese e francese, ho studiato anche il cinese. Il successo ha portato nuovi mercati e nuovi viaggi da Taiwan agli Emirati Arabi, a Centro e Sud America. Sino a quando mi sono messo in società e abbiamo incominciato a costruire e vendere impianti di produzione di filati: in Brasile, Messico, Filippine, Russia, specialmente negli USA. Poi siamo passati alla tecnologia dei tessuti non tessuti: uso igienico, pannolini, sanitari, usi termici industriali, strade, campi di calcio. Impianti ancora più grossi, del valore di 10 milioni di dollari. Nel 1995 ho deciso di tornare in Veneto, a Cittadella con un grande gruppo; nel 2012 sono andato in pensione».

È stato allora che si è messo a scrivere poesie?
«Negli anni 80 ho conosciuto un poeta importante, Paolo Ruffilli, che mi ha spinto a pubblicare Con pila tascabile. Il libro ha vinto un prestigioso premio letterario in Liguria con la giuria presieduta da Maria Luisa Spaziani. Per me era finita lì, sono sempre stato riservato, da ragazzino ero timido e imbranato. Scrivere era il mio modo di affrontare i viaggi, in aereo ti senti staccato dalle cose quotidiane. In volo è nato anche il mio romanzo Fuori controllo del 1993, un thriller politico il cui protagonista è un tecnico veneziano specializzato nella creazione di messaggi subliminali che viene assunto dalla Cina per convincere i cinesi a fare meno figli In aereo è nato anche In trasloco, poesie dell'età del crepuscolo, una parte scritta direttamente in inglese».

È per questo che è diventato un editore importante a Nordest?
«Era il 2013, frequentavo un club gastronomico culturale a San Pietro di Feletto, ho incontrato Ruffilli e con lui sono entrato nel settore dei libri e ho fondato La Biblioteca dei Leoni. Difficile perché non sapevo niente di tipografia, di carta, di edizioni, di stampa. Nel 2015 ho incominciato a stampare i primi libri per il Gazzettino, con un atto di fiducia incredibile: il giornale ne chiedeva quattro da fare subito. Da allora col Gazzettino ne sono usciti più di venti, molti sulla storia della Serenissima. In nove anni abbiamo edito 200 titoli e stampato quasi mezzo milione di copie. A 80 anni ho deciso di chiudere con quella che è stata un'esperienza bellissima. Mettere fuori dei libri è emozionante, sono come delle creature».

In mezzo la lotta alla malattia..
«Quando ho scoperto il cancro sono rimasto non impaurito ma certamente preoccupato, però sempre convinto che potevo curarmi. Avevo già visto, assistendo impotente, gli effetti devastanti della malattia su mia moglie che è morta di demenza presenile a 60 anni, ma da dieci aveva perso l'uso delle gambe e della parola.

 

Ultimo aggiornamento: 13 Dicembre, 10:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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