Da Monselice agli Usa tra libri, arte e spot iconici: «Sono un creativo fin da bambino»

Mercoledì 3 Maggio 2023 di Giovanni Brunoro
Lorenzo Marini

MONSELICE - Lorenzo Marini, monselicense classe 1958, è noto per aver ideato alcune tra le campagne pubblicitarie più iconiche.

Il suo talento di creativo a tutto tondo lo ha portato anche a scrivere romanzi, dipingere e ideare una forma d’arte in cui le lettere sono protagoniste. La sua carriera è stata segnata da grandi successi nel mondo della pubblicità.

Come è arrivato a questa forma di comunicazione?
«Da bambino volevo fare ciò che sto facendo adesso: il creativo. Non ho mai avuto un dubbio su quello che sarei voluto diventare. In questo mi sento un privilegiato. Mi piaceva disegnare, amavo le idee e il loro mondo. E un tempo le pubblicità erano una fucina di idee, mentre adesso sono il territorio dei mercanti».

Qual è stata la sua prima campagna?
«Un detergente intimo per un’azienda farmaceutica di Milano. Studiavo architettura a Venezia e al tempo non c’erano scuole di marketing: si andava a bottega, come i pittori nel ‘500. I miei inizi sono stati come graphic designer, poi mi ero spostato verso il packaging e il visual design. Avevo aperto uno studio a Padova e, per promuovermi, avevo pubblicato un annuncio su una rivista di settore. Quando mi hanno chiamato, ho avuto la prova che la pubblicità funziona davvero!».

Com’è oggi il mondo del marketing?
«Il web ha dato a tutti l’illusione di sapere e di saper fare, così il settore è pieno di gente improvvisata. A livello sociologico siamo passati dalla società dell’avere (quella del boom) a quella dell’essere (anni ‘80 e ‘90) e, infine, dell’apparire. Il marketing è diventato tutto, e dunque niente».

Lavorando con clienti internazionali ha notato che all’estero adottano linguaggi pubblicitari diversi?
«Sì, ogni Paese ha le sue peculiarità. Gli americani sono pragmatici in tutto e fanno pubblicità comparative che mostrano il prodotto e i suoi pregi. I francesi sempre molto sensuali e gli inglesi ironici, quale che sia il prodotto. Noi italiani non abbiamo scelto la nostra strada».

Com’è nato il celebre slogan “Silenzio, parla Agnesi”?
«L’idea è nata a Imperia, a una riunione con Eva Agnesi in cui discutevamo della campagna. Alle 11 di ogni mattina lei assaggiava una forchettata di pasta per controllare la qualità. Quando lo ha fatto in nostra presenza Roberto Gorla e io siamo rimasti zitti. Quello spot ha avuto successo perché si basava sulla totale assenza di audio. Gli spettatori alzavano il volume e, al momento clou, rimanevano stupiti. Quel lavoro ha avuto successo, ma ce ne sono altri che purtroppo avrebbero meritato di più. Come quello del brandy Fundador, in cui un giapponese parlava la sua lingua e poi, dopo averlo bevuto, si metteva a declamarne le qualità in perfetto spagnolo».

Viviamo in un’epoca di forte concorrenza. Perché il consumatore sceglie un prodotto piuttosto che un altro?
«Le persone non hanno bisogno di qualcosa di nuovo, ma di un’altra narrazione. Noi scegliamo il prodotto che più ci è amico, quello che parla il nostro linguaggio».

Nel 1997 ha aperto la sua agenzia. Cosa le ha dato questa esperienza?
«Ho conosciuto tantissimi imprenditori di ogni settore: soft drink, automotive, fashion design, arredamento e servizi bancari. Tra una marmellata e una poltrona, ho capito che il problema della società contemporanea è il calo del desiderio. Il benessere che ci circonda ci fa volere di meno, ecco perché la pubblicità è meno efficace. Il modello economico è in crisi, sia quello comunista che quello capitalista».

Dalla pubblicità alla Type Art. Qual è stato il suo percorso di ricerca?
«Sono sempre alla ricerca di nuovi linguaggi e ho avuto anche una parentesi di scrittore, durata sette anni. Poi per un periodo ho dipinto spazi bianchi, cercando l’armonia dell’architettura. Qualche anno fa, ho riflettuto sulla crisi della parola e ho notato che viene pronunciata senza convinzione. Quasi nessuno mantiene più quello che dice. Allora ho cambiato prospettiva e mi sono concentrato sugli elementi che compongono le parole, le lettere. Partendo da quelle, sono tornato a fare pittogrammi come gli antichi egizi. Cerco associazioni visive e narrazioni. La F può essere un fiore, la T un rasoio da barba e trasformo questi segni in illustrazioni e icone. In Oriente la calligrafia è un’arte: noi vogliamo che le lettere siano api operaie, ma gli orientali tracciano segni in pura libertà. Questo è ciò che voglio fare io. Lettere e farfalle».

Che riscontro ha avuto questa nuova forma d’arte?
«L’anno scorso, il giorno della Liberazione, hanno pubblicato sul mensile “L’incontro” il mio “Manifesto per la liberazione delle lettere”. Al contempo ho portato la Type Art a Los Angeles, New York, Dubai, Parigi, Milano, Firenze e Venezia. Vedo che la gente la ama, ma la ricerca è infinita, come una scala in cui non c’è mai un punto d’arrivo».

Quali sono i suoi ultimi progetti?
«Una mostra a Brera, World Type, dove ho creato un pianeta fatto di lettere: è una torre di Babele all’incontrario. Tutti parlano di incomunicabilità, io mi concentro sul concetto opposto. Siamo tutti connessi nel mondo delle immagini».

Ultimo aggiornamento: 17:30 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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