Saltarin con i miti della lirica: «Volevo essere Pavarotti avevo voce, talento e anche peso». Ma ha seguito l'azienda di famiglia

Lunedì 13 Settembre 2021 di Edoardo Pittalis
Maurizio Saltarin, 67 anni

PADOVA - «Volevo essere Pavarotti, sono rimasto Saltarin.

Avevo voce e talento per farcela, e per peso facevo concorrenza a Luciano, ma come mi diceva sempre lui dovevo essere spudorato. E io non lo ero. Non dovevo tenere conto di quelle che lui chiamava contaminazioni familiari, invece ero sempre pronto ad accorrere appena mia madre o mio padre stavano male. Beniamino Gigli raccontava che era in camerino a fare vocalizzi quando gli consegnarono il telegramma che annunciava la morte della madre. Non interruppe, aggiunse ai vocalizzi la mamma è morta e poi entrò in scena».


Maurizio Saltarin, 67 anni, nato a Piacenza d'Adige nella Bassa padovana, ha cantato in molti grandi teatri del mondo, ha avuto una buona carriera, avrebbe potuto diventare ancora più famoso. «Ma ero fortunato, avevo le spalle coperte dai soldi di mio padre». Crede nelle date: è nato il 29 novembre, lo stesso giorno della nascita di Donizetti e della morte di Puccini. «È incredibile questo: ho debuttato con un'opera di Donizetti e ho chiuso la carriera con la Tosca di Puccini».
Un giorno il grande soprano Ghena Dimitrova, che si divertiva a leggere le mani, gli predisse: «Tu avrai una vita lunga, ma non avrai una grande carriera. Vedo alla fine dei tuoi giorni tre donne che ti tengono la mano». E lui rispose: «Saranno tre badanti». Oggi a Este, dove vive con la moglie Elena e le figlie Regina e Silvia, insegna canto e continua a fare concerti. Tra un mese Selvazzano gli darà il premio alla carriera. 
Quando è nata la passione per la lirica?
«Avevo cinque anni ed ero con mio nonno Luigi, proprietario terriero della Bassa: aveva campi che confinavano con quelli del grande tenore Giovanni Martinelli di Montagnana, che era figlio di un ciabattino ed era diventato ricco. Lo chiamavano il leone del Metropolitan, era considerato al suo tempo il secondo Caruso. Una mattina lo abbiamo incontrato, era in carrozza, il nonno mi spiegò: Vedi, quello è l'erede di Caruso. Bastò perché scattasse in me la curiosità. La passione per la musica l'ho presa da mia madre che amava la voce di Beniamino Gigli. A mio padre, invece, piacevano i baritoni e ascoltava i dischi di Gino Bechi e Tito Gobbi. La pensavano in maniera diversa in molte cose: mio padre era di destra, mia madre, figlia di un muratore, era comunista».
Da piccolo non cantava?
«Come tutti i bambini, cantavano anche le mie tre sorelle. Avevo la voce del puero cantore quando sono andato al Manfredini di Este per frequentare le medie e dai Salesiani ho fatto sino al liceo: sono cresciuto con una forte fede e devoto alla Madonna. Cantavo da solo, di nascosto, man mano che crescevo avevo queste vocalità di baritono e tenore che mi sono rimaste, acuti e colori. Nel frattempo, mio padre Teobaldo si era svincolato dal nonno diventando un industriale conosciuto: aveva capannoni, stalle, porcilaie, e un'azienda di prodotti per l'agrozootecnia Così quando è arrivato il momento dell'università mi sono iscritto a Bologna in Veterinaria, più per fare contento mio padre che per vocazione. Io volevo fare l'artista o il calciatore, giocavo mezzala destra con talento, tanto che sono entrato subito nella squadra dell'Università. Dopo anni di collegio, a Bologna ho scoperto la libertà in tutti i sensi. Mi sono anche iscritto al Conservatorio e dopo qualche mese ho venduto i libri di solfeggio, come Pinocchio. La sera cantavo stornelli nelle osterie, di giorno giocavo a pallone. A un certo punto mi sono vergognato di spendere in quel modo i soldi di mio padre e sono tornato per lavorare nell'azienda di famiglia».
Quando ci ha pensato sul serio?
«A Bologna ho conosciuto mia moglie, ha insegnato matematica e scienze a Montagnana. È stata lei ad accompagnarmi dal direttore della corale, il maestro Adriano Bassi che mi ha portato dal tenore Danilo Cestari che aveva cantato anche alla Scala. E c'è stata la mia maestra, Eleonora Tarroni, moglie del primario di Este, comare di Riccardo Muti. Con loro tre ho incominciato a prendere lezioni vere di canto, mi hanno preparato ai primi concorsi: ne ho fatto cinque, anche internazionali, li ho vinti tutti. Sono stato alla scuola del grande tenore Carlo Bergonzi che mi ha fatto debuttare nel 1986 nella Lucia di Lammermoor al teatro di Alessandria ed è stato un successo. Ho avuto l'applauso del Loggione della Scala in trasferta. Dopo il concorso vinto a Busseto, ho addirittura avuto l'onore di sostituire Bergonzi nella Forza del destino, in piazza proprio sotto la casa di Verdi: erano venuti in tanti a sentire l'ultimo Bergonzi, invece hanno sentito il primo Saltarin».
Come è nata l'amicizia con Luciano Pavarotti?
«Avevo vinto nel 1989 il concorso Pavarotti negli Stati Uniti e sono andato alla scoperta dell'America. Mi è capitato a Filadelfia di dover sostituire nella Luisa Miller di Verdi lo stesso Pavarotti che non stava bene. E poi nel Trovatore con accanto Katia Ricciarelli e Maria Luisa Nave, grande mezzosoprano padovano. Palm Beach in Florida, sempre sotto l'egida di Luciano, è stato il trampolino di lancio internazionale della mia carriera. Con Luciano siamo diventati amici, mi dava consigli, ero spesso a casa sua, era un uomo generoso. Luciano era bravo ai fornelli, in piena notte preparava gli spaghetti per tutti».
Cosa ha frenato la sua ambizione?
«Ho cantato quasi in tutto il mondo: in Russia in mondovisione, scelto come tenore italiano assieme alla Ricciarelli e alla Gasdia. Ho cantato con la Kabaivanska, con la Dimitrova; ho avuto come compagni straordinari baritoni, da Renato Bruson a Aldo Proti e Piero Cappuccilli. Ho avuto la fortuna di cantare perfino col mitico Gino Bechi. Ma nel 1991 mio padre si è ammalato e ho dovuto seguire l'azienda, era difficile girare il mondo. Mia madre e mio padre mi sono morti tra e braccia nel giro di un paio d'anni e soltanto dopo il 2004 ho potuto riprendere in mano la carriera. Era tardi».
E l'azienda Saltarin che fine ha fatto?
«L'azienda Saltarin l'ho venduta due anni fa, produceva 20 mila maiali l'anno: mio padre voleva fare una filiera dalla macellazione al prosciutto. Poi si è incaponito con i cavalli da trotto, rimettendoci. Mio padre aveva fatto crescere l'impresa, ma la malattia lo aveva costretto a starne lontano, era un omone che pesava non so quanti chili, non si rassegnava alle cure e alle diete. Era necessario affiancarlo nel lavoro e nella vita. Dopo la morte dei genitori ho ripreso andando a cantare all'estero, in Italia non potevo: non avevo onorato alcuni contratti e questo è un ambiente che non perdona. Non ho mai cantato alla Scala o al Metropolitan e nemmeno alla Fenice, che sono i grandi templi della lirica: ho sempre dovuto rinunciare. Avevo già il contratto per il Rigoletto all'Arena e ho lasciato per la morte di mio padre. Nel 2010 assieme a Giuseppe Giacomini, grande tenore drammatico scomparso da poco a Monselice, siamo andati in Corea e qui sono stato sul punto di morire per una peritonite fulminante. Un chirurgo eccezionale mi ha salvato la vita, mi avevano detto che non avrei più cantato, invece dopo un anno sono tornato con la Tosca nello stesso teatro». Mi ha ridato visibilità e popolarità la televisione, con le partecipazioni al programma pomeridiano di Paolo Limiti. Così come mi hanno gratificato gli applausi del Verdi di Padova per il mio Vincerò nella notte di omaggio al grande Bergonzi. 
La lirica oggi?
«Adesso tanti cantano con i microfoni ed è la negazione della voce: bisogna ritornare alle origini se si vuole salvare la vecchia lirica. Altrimenti diventa un musical e con certe scelte si sta andando verso il musical. Questo spiega il successo di Andrea Bocelli o dei Volo. Niente da dire sulla loro bravura, ma Bocelli per me è un cantante pop-lirico».
 

Ultimo aggiornamento: 17:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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