Trapianto di cuore da un morto, il professor Gerosa: «Il primo passo nel futuro»

Padova, intervista al cardiochiurrgo del primato mondiale: "La scienza deve perseguire opportunità come lo xenotrapianto e l'organo artificiale"

Mercoledì 17 Maggio 2023 di Nicoletta Cozza
Gino Gerosa

PADOVA - Nel tempo libero non guarda le partite dell'Inter di cui è tifosissimo. L'emozione sarebbe troppa, non reggerebbe, e quindi ogni 20 minuti controlla il risultato sul web. Sul lavoro, invece, i sentimenti restano fuori della porta della sala operatoria, perché c'è una sola cosa che conta: l'etica, cioè riuscire con lucidità, ma anche creatività, coraggio ed esperienza, a guarire il paziente.
E Gino Gerosa, direttore dell'UOC della Cardiochirurgia di Padova, ce l'ha fatta pure l'11 maggio scorso, quando per primo al mondo ha fatto ripartire un cuore morto da 20 minuti nel petto di un malato con scompenso cardiaco terminale.

E non è l'unico primato che detiene, ma anche se l'intera comunità scientifica internazionale parla di lui, non si scompone, da buon "montanaro", come si definisce lui, nato 65 anni fa a Rovereto.


Professore, un record a maggio, ma pure a marzo ne aveva stabilito un altro.
«In quel frangente avere coniato il termine "cardiochirurgia microinvasiva" mi aveva dato enorme soddisfazione. Sì, perché in un unica seduta operatoria erano state risolte tre patologie cardiache intervenendo a cuore battente e senza circolazione extracorporea su un 62enne che dopo pochi giorni è uscito dall'ospedale in perfette condizioni. Ci sono voluti 5 anni per far accettare il termine alla comunità cardiochirurgica mondiale, ma ce l'abbiamo fatta».


Ai primi di questo mese, invece, è stata fatta una corsa per avere l'okay dal Centro Nazionale Trapianti che le ha consentito di correre in ambulanza a Treviso a prelevare un cuore da cadavere. Che sensazioni ha provato?
«Una grande serenità interiore, perchè sapevo che si trattava di un intervento rischioso e imprevedibile, ma doveroso nei confronti del paziente, a cui era necessario assicurare un beneficio. Ero in una sorta di atarassia, perchè guardare e osservare ti protegge dall'ansia, dalla preoccupazione, dai sentimenti negativi che sono deleteri. Salvare le persone è implicito nel nostro lavoro, non dobbiamo ricordarlo a noi stessi, sarebbe inutile e retorico».


Neanche un briciolo di commozione, quindi?
«Sì, e tantissima, alla fine, quando ho comunicato al papà del ragazzo che il cuore era ripartito e lui mi ha ringraziato. Gli ho detto di aspettare la dimissione, ma lui ha risposto: "comunque vada devo dirle grazie, per l'ascolto e l'accoglienza che ci ha riservato". Parole che hanno avuto grande valore per me, ripagandomi di sforzi e fatica, perchè quel papà aveva colto fino in fondo cosa c'era dietro all'intervento per aiutare suo figlio».


Stavolta è andato a prendere l'organo da un cadavere, ma qualche anno fa era partito in aereo per recuperare in Grecia un piccolo paziente.
«Era un bimbo di 5 anni, anch'esso in condizioni disperate. Appena arrivato l'ho attaccato all'Ecmo, la pompa esterna che consente l'ossigenazione extracorporea, e messo su un'ambulanza caricata su un aereo militare, che ci ha portato in Italia. Nel giro di poco tempo gli abbiamo trapiantato il cuore e sta bene. Ma anche in quel caso non mi sono lasciato sopraffare dai sentimenti per non perdere la lucidità necessaria a salvare il bimbo».


Lei è un'eccellenza mondiale in sala operatoria, ma anche nel campo della ricerca, e nei cassetti della sua scrivania ci sono xenotrapianto e cuore artificiale, che configurano la cardiochirurgia del futuro.
«Sono le opportunità che il mondo della scienza deve perseguire per dare risposte ai malati con scompenso cardiaco terminale, che solo nella sostituzione del cuore trovano la risposta terapeutica. Per il primo ci sono due opzioni. In primis l'utilizzo dell'organo di maiali modificati geneticamente per evitare una reazione iperacuta di rigetto, già effettuato a Baltimora su un uomo talmente compromesso, che non avrebbe potuto riceverne uno da un donatore perché sarebbe stato uno "spreco" impiantarlo a lui e non a un soggetto con più possibilità. L'altra ipotesi è di usare sempre cuori di maiali, ma decellularizzati: in pratica resta lo scaffold che viene ripopolato con cellule staminali pluripotenti ricavate dal ricevente e così non serve la terapia immunosoppressiva».


E a che punto siamo?
«Noi abbiamo superato la fase di decellularizzazione, e siamo alla seconda, cioè quella del ripopolamento con le staminali, che però è ancora iniziale e ci vorranno altri 3 anni. Per questo ben venga il prelievo da donatori in morte cardiocircolatoria, che aumenta del 30% la disponibilità di cuori».


E quello artificiale?
«Sarebbe l'ideale averlo su uno scaffale della sala operatoria disponibile al momento del bisogno. Ma dev'essere silenzioso, non rumoroso come quello che avevamo utilizzato a Padova nel 2007, e poi piccolo in modo da adattarlo a "tutte le taglie", e con un'eccellente biocompatibilità per garantire una buona qualità di vita. Una sfida per il sistema-Italia a cui stiamo lavorando: se ci saranno i finanziamenti tra un quinquennio saremo pronti».


Gli allievi intanto stanno seguendo le sue orme.
«Tommaso Bottio a Bari, Andrea Coli a Pisa e Gianluca Torregrossa negli Usa stanno facendo benissimo, come i miei collaboratori a Padova a cui va la mia riconoscenza. Cosa gli ho insegnato? A essere i primi ad arrivare in ospedale e gli ultimi ad andarsene, e lo hanno recepito. Una mia forma mentis, acquisita quando avevo 15 anni ed ero un cadetto della scuola militare Nunziatella».


Come trascorre il tempo libero?
«Amo andare in montagna, sciare, fare trekking, giocare a golf e a tennis. E stare con i miei tre figli e il mio nipotino, che sono le cose più care che ho».


Ma le piace anche il calcio. Ieri sera ha guardato il derby?
«No, non ci sono riuscito. Sarebbe stata troppo forte l'emozione di vedere l'Inter nella semifinale di Champions».

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Ultimo aggiornamento: 17:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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