Don Dante, cardiologo in missione in Africa: «Mia mamma era terrorizzata che diventassi prete...»

Lunedì 28 Giugno 2021 di Edoardo PIttalis
Don Dante, cardiologo in missione in Africa: «Mia mamma era terrorizzata che diventassi prete...»

Il direttore del Cuamm di Padova don Dante Carraro racconta la sua vita di sacerdote e di medico: «Ora sto partendo per il Sud Sudan dove hanno ucciso due nostri giovani dottori: lavoriamo in Paesi instabili con problemi enormi ma...».

«Mi manda missionario in Africa?» domandò il giovane cardiologo dottor Dante Carraro al suo vescovo che lo aveva appena ordinato sacerdote. «La tua Africa è dietro quella porta», fu la risposta.

E il giorno dopo don Dante si ritrovò cappellano nella parrocchia della Sacra Famiglia a Padova. Ma l'Africa era nel destino di don Dante: dal 2008 è il direttore del Cuamm - Medici per l'Africa, l'organizzazione che da 70 anni opera nel campo della cooperazione sanitaria internazionale. Una macchina che parte da Padova con un bilancio di 43 milioni l'anno, che muove migliaia di persone su un territorio che comprende otto paesi: Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centroafricana, Uganda, Tanzania Mozambico, Angola, Sierra Leone. A fondare il Cuamm, nel 1950, sono stati il medico vicentino Francesco Canova, figlio di operai tessili emigrati, e il vescovo padovano Girolamo Bortignon, quello che nella primavera del 1945 a Belluno aveva sfidato i mitra dei nazifascisti per chiudere gli occhi e benedire i partigiani impiccati ai lampioni di Piazza Campitello. Don Dante Carraro è nato 63 anni fa a Mellaredo di Pianiga (Venezia). Laureato in medicina al Bo' nel 1983, specializzazione in cardiologia col professor Dal Palù, è stato ordinato sacerdote nel 1991. «Il vescovo tre anni dopo mi mandò a chiamare: Non mi sono dimenticato di te e dell'Africa. Io chiedo: Dove? In che Paese?. Lui tranquillo risponde: In via san Francesco 126 a Padova. È la sede del Cuamm. L'Africa la respirai subito, sono partito in missione per il Mozambico che era uscito dalla guerra civile». Don Dante ha appena scritto per Laterza un libro con Paolo Di Paolo: «Quello che possiamo imparare dall'Africa. La salute come bene comune».


Ma lei da piccolo aveva la vocazione del sacerdozio?
«Assolutamente no, però mamma era come se la sentisse, era terrorizzata dal pensiero che potessi andare a fare il prete: Che non ti venga quell'idea! mi diceva. Lei e papà erano commercianti, avevano un piccolo supermercato in paese. Negli anni del liceo mi sono perfino allontanato dall'ambiente della chiesa, ma a 18 anni c'era una biondina che mi piaceva e siccome frequentava la parrocchia mi è toccato ritornare. Il nuovo parroco era uno che aiutava a capire te stesso ed è stato allora che ho capito che avrei finito per fare il prete, che alla biondina volevo bene, ma la mia libertà più vera era quella di dare tutto a quel Dio che è diventato il senso della mia vita».


Medico cardiologo e subito il seminario?
«Prima ho fatto il servizio militare come ufficiale medico, in seminario sono entrato nel 1987 ed è stato faticoso perché devi subito fare le tue scelte, come quando il rettore mi disse che avrei dovuto mollare la cardiologia. Mi venivano in mente le parole del Vangelo, quando Gesù dice a Pietro Molla le reti sulla spiaggia, vieni e seguimi. Io dovevo mollare un mondo del quale ero innamorato, la medicina. Certo, i pianti li fai! Il rettore, al quale avevo chiesto consiglio, mi spiegò che la Chiesa è come un grande campanile e tutte le campane, le grandi e le piccole, devono fare un concerto; è giusto che il vescovo faccia il vescovo e tu faccia sentire la tua campana. Questa Chiesa è piena di difetti, di problemi, ma sa liberare la vocazione che ti porti dentro. L'ho capito anche quando il vescovo Mattiazzo mi ha mandato alla Sacra Famiglia che era una parrocchia non facile, ma la Chiesa deve andare incontro, se rifiuta diventa bigotta, chiusa, non respira più. L'Africa è arrivata dopo col Cuamm e un lungo tirocinio col mitico don Luigi Mazzucato. Adesso sto per partire per il Sud Sudan dove c'è appena stata la tragedia di due nostri giovani medici ammazzati. Sono paesi instabili, in pochi mesi sono passati dalle lance ai kalashnikov. Il Sud Sudan è grande due volte l'Italia, ha 13 milioni di abitanti e 26 milioni di vacche che sono la loro ricchezza. Le razzie di bestiame sono considerate come un sequestro di persona».


Che cosa deve fare il direttore del Cuamm?
«Devi seguire il lavoro in otto paesi, tutti molto diversi tra loro. Il Cuamm è nato nel 1950 in un'Italia nella quale c'erano ancora le macerie del dopoguerra, ma conteneva già il germe di una dimensione mondiale. La sigla sta per Collegio Universitario aspiranti medici missionari, difficilissimo da tradurre, così nel 2000 ho aggiunto Medici per l'Africa, perché in gran parte siamo medici e l'Africa è il continente che abbiamo scelto. Un Paese come l'Etiopia, 120 milioni di abitanti, ha in tutto 50 ortopedici; solo a Padova ce ne sono 200! Il Sud Sudan non ha un ginecologo e c'è una sola ostetrica per 20 mila mamme che partoriscono. Il nostro mandato consiste soprattutto nella formazione di personale locale. Abbiamo aperto ospedali in 127 distretti sanitari, tre scuole di formazione per infermieri e ostetriche, una facoltà di medicina in Mozambico. Ci sono 4777 persone che lavorano con noi, il 90% del personale è africano. Il servizio sanitario è per tutta la comunità, nei consigli d'amministrazione siedono anche i governi locali. Del bilancio di un anno il 65% viene da finanziamenti istituzionali, il resto da finanziamenti privati».


Quali sono i problemi maggiori?
«In assoluto la mancanza di risorse umane, quelle che riesci a formare molte volte scappano. Laggiù tutto può trasformarsi in tragedia incontrollabile. Il Covid ha terrorizzato la gente che è rimasta a casa. Avevano già vissuto l'Ebola, sanno cosa può succedere con un virus letale. Con il Covid anche i Paesi occidentali sono andati sotto stress dal punto di vista finanziario, l'Europa ha tirato fuori vagoni di euro e di conseguenza sono diminuiti gli aiuti all'Africa dove in farmacia non ci sono farmaci e nei laboratori mancano i reagenti per i test. L'altro grande problema è il costo della salute: in Sierra Leone quando le cose andavano bene c'erano disponibili 80 dollari pro capite l'anno; in Italia sono oltre 3500, quasi cinquanta volte. Gli esclusi sono molti, troppi. Nella capitale della Sierra Leone abbiamo preso in mano il problema della maternità: siamo arrivati a 8275 parti con tre ginecologi, Padova ne ha 3300 con 70 ginecologi. La maternità non è una malattia, è un diritto sacrosanto di mettere un bambino al mondo».


Don Dante, ha più fatto il medico?
«Sì, all'inizio: sono andato a lavorare in ospedaletti rurali in Etiopia, in Uganda, in Tanzania. Ho visto bambini morire di tetano perché la copertura vaccinale è quasi inesistente. Un bambino che muore di tetano sembra che sorrida, si bloccano i muscoli del viso e del torace, resta lucido, muore soffocato. Perderli per una cosa che tu medico puoi prevenire, è insostenibile. Questo ti genera dentro la rabbia e la sensazione di una profonda ingiustizia. E lì la domanda che mi faccio anche da prete e che è dentro di me: come faccio a credere a un Dio che vuole bene a tutti? L'unica risposta è stare zitto e fare tutto quello che puoi fare per questa gente. Ma la cosa forse più forte che mi ha insegnato l'Africa è che è molto più serio passare dal lamento al rammendo: ago e filo e te sì più contento anca ti, dopo. L'Africa ti insegna anche l'allegria, a volte penso alle nostre messe: da noi se ti metti a livello del cuoio capelluto della gente, si va dal grigio allo zero assoluto; la metà si appisola, il prete talvolta vaga nello spazio. Vai in Africa e c'è l'esplosione della vita, la gallina che viene dentro, la mamma che tira fuori la tetta e dà da magnar al puteo. Noi stiamo diventando vecchi, depressi, incazzati dalla mattina alla sera. Dall'altra parte c'è un mondo che ti sollecita».

Ultimo aggiornamento: 08:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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