«Io, chef stellato per astronauti: ecco i segreti di Parmitano e Cristofoletti»

Lunedì 20 Gennaio 2020 di Edoardo Pittalis
Polato e Samantha Cristoforetti - Foto Ente spaziale (Esa)

Tutto ciò che Samantha Cristoforetti mangia quando è nello spazio, l'ha creato e cucinato lui. E anche quello che consumano Luca Parmitano e Paolo Nespoli girando attorno alla Terra. Lui realizza le ricette, le cucina, le conserva per gli astronauti, senza mai tradire il gusto italiano. Nelle confezioni, che si vedono galleggiare in assenza di gravità, mette il Veneto del tiramisu, la Lombardia del risotto allo zafferano, la Sicilia della capponata, la Campania dello sgombro. È un privilegio che gli astronauti italiani hanno conquistato: prima dovevano sorbire menu rigorosamente imposti da Houston, solo cibi americani e russi. Poi soprattutto su insistenza di Samantha e di Parmitano è arrivato il Bonus food, quasi la metà del menu possono portarselo da casa. Ora il bonus spaziale vale per tutti gli europei. Stefano Polato, 39 anni, padovano di Este, è il direttore del Laboratorio dell'Agenzia aerospaziale di Torino che si occupa di produrre il cibo per tutti gli astronauti europei.
 

 


Ma come è arrivato fino allo spazio?
«Era il 2012, un giorno mi chiama il dottor Filippo Ongaro col quale collaboro e che oggi vive in Svizzera e non fa più il medico, si occupa di benessere. Mi preannuncia la telefonata di una signora che non sapevo chi fosse. Era Samantha Cristoforetti, chiedeva qualche ricetta, un piatto unico nel quale ci fossero tutti gli elementi di un'alimentazione corretta: Non ti ha spiegato Filippo che questa cosa va nello spazio?. Così scopro che è un'astronauta scelta per la missione e che pensa di portare con sé pasti che accontentino il suo gusto. La notte stessa ho mandato le proposte a Samantha ed è incominciata l'avventura. L'Agenzia Spaziale Europea mi ha subito inserito nella missione Futura 42 come chef».

È complicato fare ricette per gli astronauti?
«Il cibo si deve conservare a temperatura ambiente per almeno due anni. Deve essere inserito in un piano alimentare costruito dai nutrizionisti e appagante come gusto. L'uomo in microgravità ha una percezione alterata dei gusti e dei sapori. È come avere sempre un mezzo raffreddore, stare a testa in giù. È tutto più difficile, anche masticare è un problema. Ci sono due lavorazioni principali per i cibi degli astronauti: la termostabilizzazione, tipo come si fa oggi col vasetto di pomodoro, prodotto umido, pronto da mangiare anche a temperatura ambiente; la liofilizzazione, ideale per i vegetali, i piatti liofilizzati vengono reidratati a bordo, messi in acqua a una temperatura stabilita. Si cerca di preservare al massimo le vitamine, i sali minerali, i legumi, tutto quello che serve per evitare l'invecchiamento cellulare che in quelle condizioni è accelerato».

Il sapore e il gusto resistono?
«Il sapore e il gusto ci sono, utilizziamo erbe aromatiche come timo e cannella con capacità di conservazione anche del gusto. Il salto di qualità è stato con Samantha persona molto attenta al cibo, lei apprezza lo sgombro, ama i broccoli, devono essere cibi nutrienti, ricchi di aminoacidi, di alta digeribilità. Per lei ho pensato a una zuppa di legumi, poi riso agrodolce, fagiolini, pollo al curry, uvette, mandorle. Luca Parmitano, che ora è in orbita, ha voluto il tiramisu e lo abbiamo fatto liofilizzato, poi la parmigiana di melanzane e le lasagne alla bolognese. Un aspetto fondamentale è legato alla consistenza: non tutto può essere mangiato nello spazio, quello che produce briciole o contiene troppo liquido non va bene, il rischio di volatilità è altissimo, un chicco di riso può creare danni alla strumentazione. Allora bisogna creare compattezza al cibo: il risotto ha consistenza ideale, rimane attaccato alla posata; anche la cremosità del tiramisu va bene».

Quando è nata questa passione per la cucina?
«Mia nonna Ermelinda è stata quella che mi ha fatto amare il cibo, ho avuto la grande fortuna di crescere fino ai dieci anni in campagna con la nonna che mi ha trasferito l'amore per la natura, il concetto di stagionalità, il rispetto del territorio e per tutto quello che ti offre. Mi chiedeva: Cosa vuoi mangiare?. Poi mi portava nell'orto a raccogliere quello che avrei mangiato. Con la stufa economica la nonna ci faceva tutto, con un unico strumento soddisfaceva colazione, pranzo e cena di una famiglia di 12 persone! È impressionante capire quante cose derivano oggi da quell'esperienza: penso alla cottura sotto vuoto e bassa temperatura. C'era un termine veneto, lasciar pipare, valeva per il baccalà e non solo. Non si buttava niente. Per non parlare della pianificazione: da mia nonna si sapeva cosa si mangiava ogni giorno della settimana, le varianti erano destinate alla domenica. Quando sono entrato in contatto per la prima volta con gli astronauti e ho stretto le prime relazioni più intense col mondo scientifico, ho preso coscienza di un concetto: quello dell'Epigenetica. Prima pensavo che il DNA fosse il nostro libretto di istruzioni, invece ci sono elementi esterni che influenzano i nostri geni: l'alimentazione prima di tutto. Credo che nonna Ermelinda sapesse già di epigenetica, aveva capito benissimo che il cibo e l'ambiente determinavano lo stato di benessere della famiglia».

Poi ha fatto il cuoco per conto suo?
«Il resto lo ha fatto la famiglia di mia moglie Sabrina con la quale siamo cresciuti insieme dagli anni della scuola. La mamma mi ha trasmesso una grande capacità culinaria e un concetto alto di gusto. Mi sono diplomato perito aziendale corrispondente in lingue estere, non c'entra niente con la cucina. E, per amore dell'arte, mi sono laureato a Venezia in Beni culturali. Ma la lezione di nonna Ermelinda era sotto la cenere, appena laureato mi sono iscritto a un corso di cucina internazionale a Chioggia e mi sono appassionato. È venuta fuori l'occasione di acquistare un ristorante, il Campiello, in centro a Monselice e con mio fratello e mia moglie abbiamo incominciato nel 2006. Ho subito scoperto che chiedeva sacrifici e difficoltà di ogni genere e che non si è mai abbastanza preparati per affrontarli. Collaboro con Istituti alberghieri e mi accorgo che molti ragazzi non hanno basi solide, che è tutto stravolto dalla tv che spettacolarizza e anche banalizza. La realtà è un'altra cosa, non si può diventare chef a 25 anni! La verità è che un cuoco non ha quasi vita sociale, esiste solo il ristorante: mio figlio Pietro nel suo primo anno di vita non lo vedevo nemmeno».

Adesso ha cambiato vita: perché?
«Molto per motivi personali, un po' per cambiare strada. Sono stati decisivi due fatti: la morte di mio papà Guglielmo per una brutta malattia, impattante emotivamente, e la contestuale nascita di mio figlio Pietro. Oggi, oltre a seguire la produzione per il cibo per ogni astronauta nominato, mi dedico a un progetto all'interno del quale si parla si salute, ma tutto sempre legato al mondo del cibo. Tengo corsi pratici di cucina, selezione della materia prima, lavorazione e cottura, conservazione del cibo. Gli utenti sono vari, il primo corso è partito con i farmacisti. Un cuoco non somministra cibo, somministra vita».

Il suo menu ideale, tenendo conto che non possiamo fare tutti gli astronauti?
«Ormai ho fatto mio il concetto di piatto unico, un menu deve contenere un antipasto, un primo, un secondo e un dessert. Deve avere un 50% di verdure, 25 di carboidrati e 25 di proteine. Attenzione alla temperatura di cottura e a variare ingredienti cotti e ingredienti crudi. Il mio menu è questo: la capponata con ricetta tradizionale; riso integrale condito con zafferano, succo d'arancia e frutta secca; sgombro con pomodori secchi e capperi; tiramisu per chiudere».
 

Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 10:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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