Nino Calabrò, primario di urologia con la passione per le ceramiche: «Ma solo se kitsch»

Giovedì 21 Ottobre 2021 di Nicoletta Cozza
Nino Calabrò

SCHIAVONIA - Il requisito che devono avere è di non piacere a una persona di buon gusto.

Prese singolarmente, quindi, possono essere solo banali ed esteticamente brutte, al punto che desterebbero orrore se piazzate nel tinello di casa. Ma l'aspetto stupefacente è che se invece sono tante, e vengono messe una accanto all'altra fino a costituire un insieme, diventano un capolavoro di inaudita bellezza, che lascia senza fiato per l'emozione chi osserva questo singolare tripudio di colori sgargianti e di accostamento di forme stravaganti e diversissime.


Le ceramiche kitsch, infatti, come scrive Gillo Dorfles nel saggio più importante che sia stato pubblicato sull'argomento, «sono oggetti tra i più detestabili, ma che possono essere trasformati in elementi artisticamente positivi, se utilizzati in una certa maniera, in ambienti che vogliano creare un'atmosfera sofisticata proprio attraverso la svalutazione-rivalutazione di tali oggetti». In pratica, quindi, le definisce una forma d'arte a tutti gli effetti.
E a confermare in pieno questa tesi è la collezione di ceramiche rigorosamente kitsch di Nino Calabrò, stimato primario di Urologia all'ospedale di Schiavonia, nella Bassa padovana, che ne ha raccolte oltre tremila dagli inizi degli anni Novanta; a breve circa 300, cioè le più emblematiche, saranno esposte in centro a Padova in una mostra che l'assessore alla Cultura Andrea Colasio sta programmando e sulla quale pensa di scrivere un saggio sociologico. Lo specialista ha iniziato per caso a raccoglierle e poi ha fatto diventare la mansarda della sua abitazione una specie di galleria d'arte, dove il kitsch riempie le pareti, e il cuore dell'ampio spazio, di assoluta bellezza. In fila, suddivisi per tipologia, quindi, ci sono centritavola, damine, vasi, scarponi, animali, personaggi dei cartoni animati, tra cui un nutrito numero di Topo Gigio, bambi, cineserie, orologi, posacenere, scarponi e bomboniere, prodotti tra gli anni '50 e '60, dal sapore un po' antico come le caramelle all'anice e i biscotti fatti in casa, che servivano a rallegrare le abitazioni delle nonne.

IL RACCONTO

Bisturi e robot in sala operatoria durante la settimana, dunque, e nei giorni di riposo l'appuntamento fisso all'alba con i mercatini, a caccia di pezzi da acquistare. E la domanda che Calabrò pone agli ambulanti che ormai lo conoscono è sempre la stessa: «Oggi hai qualche schifezza per me?».
«Ho cominciato per caso negli anni Novanta - racconta - quando andavo a cercare libri e riviste dei primi anni del Novecento mai più pubblicati, come i volumi di Giuseppe Prezzolini e le copie de La Voce, il periodico che dirigeva. Un giorno, però, su una bancarella ho notato un libro di Dorfles sul kitsch, argomento a me sconosciuto: l'ho acquistato e l'ho letto subito, anche se non avevo alcuna vocazione artistica. Ma l'origine contadina, dove nel salotto buono erano presenti questi oggetti proposti oggi come kitsch, ha fatto scaturire il mio interesse. E così ho iniziato a comprare cose brutte per vedere che cosa si sarebbe aperto all'orizzonte, però imponendomi un budget dai 3 ai10 euro per ciascuna, anche se qualche volta mi sono concesso qualche strappo e sono arrivato a 15. E quando ho raccolto le prime 100, e mia mamma Rosalia le ha viste, mi ha donato il regalo di nozze del suo testimone: un vaso verde con il bordo dorato, che ora è il pezzo che più mi è caro della collezione. Lei, poverina, era convinta che si trattasse di oggetti preziosi».


Calabrò ricorda benissimo qual è stata la prima schifezza che ha portato a casa. «Era un vaso con due cagnolini ai lati, e un cigno portapenne. Quando sono rientrato mia moglie Eliana mi ha guardato perplessa e ha esclamato: tu sei fuori di testa. Non ti sognare di mettere questa porcheria in soggiorno. E così ho sfrattato i miei libri dalla mansarda, per far posto alle ceramiche, che ora sono più di tremila. Alle volte ai mercatini trascinavo con me un collega raffinato, sempre in giacca e cravatta e che collezionava vetri antichi, e sottoponevo al suo giudizio l'oggetto che avevo intenzione di acquistare: se faceva finta di non conoscermi, lo compravo subito, se diceva che bello, lasciavo stare. Mi diverto e mi emoziono ogni volta che trovo un nuovo reperto. Riconosco di essere un collezionista seriale di cianfrusaglie a basso prezzo». 
A incrementare il numero, poi, hanno contribuito anche gli amici. «Chi deve svuotare una soffitta, o una cantina, prima di andare a gettare nel bidone della spazzatura i ninnoli della nonna, passa da me. Ma c'è stato anche chi mi ha dato soddisfazione per questa strana passione ed è stato Franco Pavanello, uomo di cultura e sua volta collezionista, il quale aveva pensato di creare una Fondazione e di inserirvi la mia raccolta. Poi è mancato e non se n'è fatto niente».


Tra i pezzi più curiosi, ci sono una racchetta con tre palline davanti, gialle e azzurre; una bagnante sdraiata; una scarpina dorata, un Topo Gigio portapenne; un'oca con il foulard che tiene un portauovo; un vaso con un rubino di plastica nel mezzo; un pinguino con una sveglia incastonata nella pancia; gli scarponi degli alpini e due ballerine di colore attaccate alle palme.

CHI È

Calabrò, 64 anni festeggiati l'altro ieri a Londra, originario di Sant'Alessio d'Aspromonte, dalla Calabria era arrivato a Padova una volta conseguita la maturità scientifica per frequentare la facoltà di Medicina; dopo la laurea e la specializzazione, è diventato uno degli assistenti del professor Francesco Pagano, luminare dell'Urologia mondiale e fondatore del Vimm. E durante la pandemia, quando il nosocomio monselicense è diventato hub Covid, ed è rimasto per giorni nei reparti blindati in cui si combatteva la battaglia contro il virus, ha immortalato efficacemente quel periodo grazie al suo secondo hobby, la fotografia, scattando con il telefonino un centinaio di immagini commoventi e di grande potenza narrativa nel descrivere il dramma della sofferenza e dell'isolamento che trasmetteva ogni angolo dell'ospedale. Tante sono in bianco e nero, per esaltare le situazioni più critiche di un periodo grigio. Somigliano ai quadri di Edward Hopper, pittore statunitense famoso per i suoi ritratti caratterizzati da solitudine e paesaggi deserti. «In quel frangente - ricorda - quando rientravo a casa mi rilassava e mi dava allegria salire in mansarda e stare un po' di tempo in mezzo alle mie ceramiche».


Ma come possono coesistere l'amore per la Medicina, per la fotografia e per il kitsch? «Sono passioni diverse e con responsabilità diverse - conclude l'urologo -. Il risultato clinico mi riempie la vita, scattare foto e collezionare ceramiche mi diverte, soprattutto quando chi vede queste ultime tutte insieme esclama incredulo che meraviglia!. Proprio come ha sottolineato Dorfles nel suo saggio. Non ho smesso di cercarle all'alba della domenica nei mercatini e quando andrò in pensione sarò impegnato tutti i giorni a spolverarle, una per una».

 

Ultimo aggiornamento: 16:57 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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