Alberto Trevisan, tra i primi obiettori di coscienza in Italia: «Era il 1970, ho fatto 2 anni di carcere, ne è valsa la pena»

Mercoledì 2 Novembre 2022 di Iris Rocca
LA STORIA - Alberto Trevisan uno dei primi obiettori di coscienza

PADOVA - Lei aveva capito che stava facendo la storia? «All’inizio no. Ma sono nato il 21 settembre, Giornata internazionale della Pace. Forse un po’ era scritto». 
A rispondere è Alberto Trevisan, classe 1947, uno dei primi obiettori di coscienza in Italia, addirittura nel 1970, quando questa scelta era punita con il carcere, durato quasi due anni, nel suo caso. Un uomo che 10 anni fa si è raccontato nel volume “Ho spezzato il mio fucile” e che ora si appresta a festeggiare i 50 anni dalla legge che ha messo nero su bianco la legalità del dissenso al servizio militare. 


Come è nata questa sua ribellione rispetto al servizio armato? 
«È stato un sentire meditato.

Ho trascorso la mia gioventù a Feltre, dove sono nato, per approdare a Padova negli anni dell’università. Eppure l’obiezione di coscienza era nata in me fin dal liceo, quando un professore mi ha iniziato agli studi di Gandhi, Luther King, Thoreau, ai quali è seguita una lettura critica del Vangelo». 


Così giovane e già così determinato?
«Dopo la visita medica al centro addestramento reclute degli Alpini de L’Aquila, ho rinviato la partenza a causa degli studi. Poi ho deciso definitivamente che non avrei fatto parte di quella realtà». 


Una scelta costata cara. 
«Ho deciso di obiettare per la prima volta il 9 giugno del 1970, ma non quando avrei finito. Le mie obiezioni sono state tre, intervallate da pochi mesi di libertà e da tre processi». 
Processi che l’hanno sempre vista condannato. 
«Sono stato ospitato al carcere di Roma, a Forte Boccea, poi a Peschiera del Garda e, infine, a Gaeta. Quest’ultimo era un carcere reclusorio, per pene definitive, ma dove siamo stati comunque obbligati ad andare perché temevano che la presenza di noi disertori a Peschiera avrebbe potuto creare problemi rispetto ai tanti pacifisti in marcia». 


Non era solo nella sua scelta, dunque? 
«A dire il vero la mia prima obiezione è stata personale, intima. In pochi ne erano a conoscenza e, tra questi, vi erano i miei genitori, grandi maestri di libertà, ai quali ho spiegato il mio rifiuto alla logica militare e che mi hanno fatto sentire il loro appoggio». 


Poi però il gruppo di disertori è cresciuto. 
«Ci siamo trovati in più ragazzi incriminati a condividere uno stesso pensiero: ben sette persone. Ci guidavano motivazioni diverse: il credo cattolico, il pensiero anarchico, la filosofia radicale. Ho conosciuto testimoni di Geova che sono stati in carcere anche 5 anni: obiezione totale e sentenza definitiva. Nel 1971 abbiamo fatto la prima obiezione di coscienza collettiva, la chiave di volta per tutto il movimento». 
E le sue motivazioni quali erano? 
«Ho riflettuto molto leggendo la Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, dove per la prima volta la Chiesa dichiarava che non esisteva più una guerra giusta, ma era giusto rispettare le scelte degli obiettori di coscienza. Ha rappresentato un lasciapassare rispetto al mio sentire. Sentivo una spiritualità laica, vicina a quella rivoluzione che avveniva nella Chiesa. Eppure nelle obiezioni sono stato a contatto con ragazzi di estrazione diversa e non pesavano le radici: eravamo tutti ottimi compagni di viaggio». 


Non è stato un militare, ma ha militato. La sua battaglia pacifista ha significato essere considerato un delinquente, perdere il primo lavoro, trascorrere 20 mesi in carcere
«Quello che stavamo facendo non era una stupidaggine: non sono andato contro una circolare, ma contro l’articolo 52 della Costituzione che recitava l’obbligatorietà del servizio militare per tutti. La gente neppure sapeva cosa significasse l’obiezione di coscienza: non esisteva neanche il reato. Venivamo condannati per la disobbedienza, quindi anche questo è stato rivoluzionario per la legislatura. Nel codice militare di guerra era prevista addirittura la pena di morte per chi non voleva combattere». 


Quando si è reso conto che iniziava a cambiare qualcosa fuori dalle mura in cui era detenuto? 
«Quando ho visto che il mio sentire era condiviso da altre persone: ho capito che quel movimento avrebbe cambiato la storia. Tanti giovani manifestavano per noi e gli stessi direttori delle carceri spingevano in Parlamento affinché nascesse questa legge». 


Credo sia inutile chiederle se lo rifarebbe. 
«Lo rifaccio tutti i giorni (sorride guardando il braccialetto coi colori della Pace, ndr). A distanza di molti anni vengo chiamato ai convegni della Caritas o dell’Unicef come persona che ha lasciato un segno, per dare una testimonianza diretta. Ho aiutato a costruire una società più pacifica e non violenta. A Rubano, dove vivo, ho anche creato un assessorato all’Educazione alla pace e alla difesa dei diritti umani, il primo in Italia, al quale ne sono seguiti altri. Ne parlo con i ragazzi delle scuole, bambini dell’età dei miei nipotini». 


Nipoti che non avranno mai avuto un’arma giocattolo... 
«Hanno solo una pistola di legno costruita artigianalmente da una cognata. Ma a loro non piace sparare».

Ultimo aggiornamento: 15:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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