Mettetevi nei panni di un ristoratore che da mesi lavora a ritmo prima dimezzato (solo a pranzo), poi praticamente azzerato (solo asporto), e costretto a lasciare a casa, da mesi - in cassa integrazione -, i dipendenti: come vi sentireste? Male, ovviamente.
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Districarsi fra problemi economici e un inevitabile malessere psicologico da ormai poco meno di un anno (salvo il libera tutti, o quasi, dei mesi estivi) non è certo un bel vivere. Ma c'è da giurarci - vi sentireste anche peggio sapendo che, a pochi chilometri di distanza, nella provincia che confina con la vostra, in un'altra regione, certo, ma pur sempre in Italia, i vostri colleghi possono lavorare tranquillamente, raccogliere prenotazioni, e cucinare come se niente fosse, a pranzo come a cena e questo beffa delle beffe nonostante il colore del vostro territorio (arancione) segnali una situazione seria ma comunque meno grave rispetto a quella dei vicini (rossi). Infatti i ristoratori bellunesi non è che abbiano preso benissimo sapere che per fare qualche esempio mentre a Cortina d'Ampezzo e in Alpago, in Cadore e in Comelico c'è il coprifuoco, a pochi chilometri di distanza, in zona (teoricamente) rossa, si lavora come se niente fosse, fatte salve, ovviamente, le regole di sanificazione, distanziamento e lo stop alle 22.
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«È piuttosto frustrante sentire che i nostri clienti vanno a pranzo e cena in Alto Adige e da noi non possono venire. Capisco l'autonomia regionale ma qui si sta esagerando e francamente ci sentiamo un po' presi in giro», dice Renzo Dal Farra, titolare, assieme alla moglie, dello stellato Locanda San Lorenzo di Puos d'Alpago, nel Bellunese. «Sia chiaro: nessuno vuole ammalarsi né far ammalare i clienti, ma credo che chi ha predisposto tutte le misure di sicurezza, ridotto i coperti, distanziato i tavoli, e si è attrezzato con le sanificazioni, debba essere messo in condizione di lavorare. Poi, certo, capisco anche che non tutti sono stati così rispettosi delle ordinanze e questo ha penalizzato anche chi invece si era messo in regola a proprie spese. Forse qualche controllo in più e multe meno morbide e più persuasive avrebbero scoraggiato i furbi e permesso di lavorare a tutti».
LA CONCORRENZA
Resta il fatto che per località che vivono di e col turismo sapere che a pochi chilometri di distanza e nello stesso Paese le regole siano così diverse dà parecchio fastidio. Del resto, basta fare qualche telefonata per scoprire che è tutto vero: al ristorante Zur Rose di Bolzano, una stella Michelin, specificano che sono sempre aperti, pranzo e cena, anche di domenica. La Stua de Michil, a San Cassiano, è chiusa solo perché fa parte del complesso dell'Hotel La Perla, che aprirà (sperano) a metà febbraio: «Ma l'altro nostro ristorante, il Ladinia, è aperto da venerdì a domenica, a pranzo e a cena», fa sapere un cortesissimo addetto al ricevimento. Chiuso invece, in Alta Badia, il St. Hubertus, il tre stelle Michelin di Norbert Niederkofler: anche qui si attende la riapertura dell'hotel che lo ospita, il Rosa Alpina.
Ovviamente nessuno se la prende con i colleghi, ci mancherebbe: «Loro non c'entrano nulla chiarisce Dal Farra - ovvio, se possono restare aperti fanno benissimo e lo faremmo anche noi al loro posto. Però che nella stessa nazione e a breve distanza ci siano queste differenze è intollerabile. E, oltretutto, i penalizzati sono quelli della regione valutata meno a rischio». Come molte altre cose, in questa curiosa Italia, anche questa è difficile da capire.
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