Addio al giudice Mario Fabbri: da solo chiese giustizia per i morti del Vajont

Martedì 7 Maggio 2019 di Daniela De Donà
Il giudice Mario Fabbri con la toga di Procuratore di Belluno
BELLUNO - Il processo ai responsabili della tragedia del Vajont ha un nome solo, Mario Fabbri. Un giudice che ha aggirato forme di ostruzionismo, abusi d’ufficio, ostacoli della burocrazia. Per questo, a volte, considerato scomodo. Ieri è morto a 86 anni, dopo lunga malattia, all’ospedale “San Martino” di Belluno dove era ricoverato. Giovedì, tra i cipressi del cimitero di Prade alle 14.30, a lui si stringeranno, per un saluto estremo in una cerimonia laica, parenti, amici, cittadinanza tutta.  
FABBRI E IL VAJONT 
Seguì il processo dal febbraio 1964 al febbraio 1968. Strinse quasi un patto, in nome di una giustizia che doveva arrivare al capolinea. «A processo concluso ricevetti una lettera dal presidente della Corte d’Appello, che lesse la mia istruttoria, nella quale mi proponeva per un elogio solenne al Consiglio superiore della Magistratura - spiegò -. Ingenuamente attesi quell’elogio. Invece mi arrivò una lettera con 120 addebiti a mio carico. Tutto, poi, finì, comunque, con una assoluzione». 
IL PROCESSO
Nato a Macerata, ma bellunese d’adozione. Fu lui, appena trentenne, a ritrovarsi tra il fango di una tragedia. Non solo perché, nella sera del 9 ottobre 1963, 160 milioni di metri cubi traboccarono dalla diga. A volte gli parve, durante il processo da lui istruito, di essere invischiato. Eppure riuscì, in una storia oggi racchiusa in faldoni di quasi 500 pagine, di cercare giustizia. «Perché ci fu l’intento di far seppellire il Vajont, di cancellarlo dalla coscienza collettiva», affermò in un’intervista rilasciata al Gazzettino, nel 2013. Duemila donne, uomini e bambini morirono sotto l’onda gigante sollevata dal Monte Toc crollato in un soffio. Dovette affrontare enormi difficoltà nel corso delle sue indagini, ma alla fine riuscì a firmare il rinvio a giudizio per 11 tra dirigenti della Sade, progettisti e tecnici. Venne depositata il 21 febbraio 1968. 
LA PERSONA
«Ma chi tira le fila preferisce che di certi eventi non si parli». Peli sulla lingua non ne ha mai avuti Mario Fabbri. Tanto da ammettere che «Con il Vajont arrivarono nel Veneto e nel Bellunese tanti soldini. Ma molte opportunità furono gettate al vento». E sul trasferimento “per legittima suspicione” a L’Aquila, con tanto di viaggi faticosissimi per i testimoni da Longarone o Erto: «Venne sentito come un affronto alla popolazione bellunese. In realtà c’era l’esigenza di portare il processo fuori dal Veneto. Le compromissioni erano evidenti, sia in ambito scientifico, a cominciare dai forti legami con l’Università di Padova, che a livello giudiziario. Era risaputo che la Corte d’Appello di Venezia era vicina agli ambienti della Sade, di Cini, Volpi e Gaggia. Tutti coinvolti più o meno direttamente nella tragedia del Vajont». Nel 2013 a Fabbri venne consegnato il Pelmo d’Oro. «Io, in fondo - disse -, rappresento la gente che ha operato a favore della montagna, che non è la causa della tragedia del Vajont, risultato, invece, di una natura violentata». 
Belluno omaggia non solo “il giudice Fabbri”, quello delle perizie, delle sentenze, delle requisitorie intorno ad una diga-gioiello. Ma anche il Mario Fabbri amorevole nonno e bisnonno. Lascia la moglie Maria Luisa, i figli Antonio con Marta, Antonella con Fabio e Andrea con Linda, i nipoti i parenti e gli amici tutti.
Ultimo aggiornamento: 08:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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