Manrico, l'alpinista agordino che ha scalato le pareti di mezzo mondo, fino all'Himalaya

Martedì 19 Febbraio 2019 di Daniela De Donà
Manrico Dell'Agnola, alpinista di Agordo
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Manrico Dell'Agnola, alpinista di Agordo, compie 60 anni. Ha superato pareti di mezzo mondo: dall'Eldorado Canyon a El Capitan in Yosemite fino all'Himalaya. Ma le Dolomiti sono state il suo vero amore. E la sua firma le scalate in solitaria slegato. «Il vero pericolo - dice oggi - è salire le montagne solo per inseguire la gloria».

La prima volta per Manrico Dell'Agnola fu a dodici anni. In un giorno di luglio toccò la cima della montagna di casa, l'Agner. Venne affidato alla mitica Gigia De Nardin, la scalatrice e fotografa agordina che Claudio Baglioni cita, immortalandola, nella canzone Ad Agordo è così. Manrico Dell'Agnola ha appena compiuto sessant'anni. Al Palazzo delle Contesse di Borgo Valbelluna (recentissima unione dei Comuni di Mel, Trichiana, Lentiai) cento amici gli hanno teso una trappola: una festa a sorpresa con l'allestimento di una mostra con sue fotografie. Quelle che  raccontano cinquant'anni di un vagabondo che ama mettere le mani sulla roccia. Nato ad Agordo l'11 febbraio 1959 non trovò un tappeto rosso per la passione per la montagna. Per mamma Marcella Dai Prà, così come per papà Manlio, un figlio alpinista non era il massimo: «Perchè troppi loro amici erano morti in montagna».
AGNER E CIVETTASull'Agner Manrico, trentenne, tornò per un'impresa: «Gli anni Novanta furono quelli dei concatenamenti in giornata di più vie ricorda - con Alcide Prati percorsi i 1600 metri di spigolo, in velocità, dopo aver salito quello della Busazza». La montagna del cuore è, però, la Civetta. «Lì ho rischiato la vita, quando, per la prima volta, mi cimentai con il vero alpinismo lungo la via normale della Torre Venezia. Ho ancora ben impresso lo sguardo dubbioso e preoccupato del Tama, Armando Da Roit, allora gestore del rifugio Vazzoler, mentre ispezionava il pezzo di corda di 30 metri e ci faceva un corso rapido di nodi è il racconto - io e Bepi Giacomini non riuscimmo a farle le calate in corda doppia. Non c'era abbastanza corda e dovemmo arrampicare anche in discesa, ovvero un rischio immane per due principianti. Ora, quando mi trovo a parlare in incontri pubblici, racconto questa mia esperienza per dire ai giovani che il nostro non è stato e non è il modo giusto per cominciare».
PURA ATTENZIONEA sessant'anni Dell'Agnola si guarda indietro e alcune esperienze diventano pietre miliari. Con sincerità ammette: «Pericoloso è anche arrampicare inseguendo la gloria. Lo feci quando, molto giovane, ripetei in solitaria e senza corda la via di Marampon lungo gli strapiombi della Torre Venezia: appeso a quei chiodi rischiai veramente la vita solo per finire sulle pagine dei giornali». Gli ci vollero mesi prima di riprendersi. «Non l'ho più fatto».
In realtà Dell'Agnola è noto per scalare in libertà: «Alcuni pensano che io abbia rischiato nelle mie solitarie slegato, ma non è così. La sicurezza viene dall'allenamento e dalla preparazione. Vi è una serenità interiore che nasce dal sentirsi pronti». Manrico, che dal 1990 vive a Mel in provincia di Belluno, motiva cosa stia dietro al desiderio, che è la sua firma, di puntare ad una cima slegato: «Detesto gli orpelli. Ma non è che mi piaccia arrampicare da solo: se potessi arrampicherei slegato insieme ad un compagno con il quale chiacchierare». È accaduto poche volte: di certo con Alcide Prati.
SULLE ORME DI KEROUACSeguendo la curiosità e la voglia di incontrare nuove culture, Dell'Agnola ha viaggiato inseguendo i miti: l'Eldorado Canyon in Colorado, le vie strapiombanti del El Capitan nella Yosemite Valley, le vette dell'Himalaya: «Ma uno scalatore deve prima cimentarsi a casa propria, per me in Dolomiti. Così si dimostra quanto si vale. Sulle scalate in giro per il mondo si possono inventare delle belle storie». Era il 1981. Manrico, con Lucio Bonaldo, partì per New York. La meta, in realtà, era molto più a ovest. I due, però, non avevano denaro a sufficienza per il volo su San Francisco: «Raggiungemmo Sacramento in autostop. Nessuno di noi, allora, aveva preso in mani On the road di Kerouac. Quando lo lessi, parecchi anni dopo, mi divertii nello scoprire che uscendo da New York ci eravamo persi come gli illustri personaggi del libro». C'è il ricordo - più che avventuroso, rasente la galera - del Camp 4, nello Yosemite: «Ogni sera piantavamo la tenda nel bosco in un posto diverso e la rimuovevamo ogni mattina scappando agli agguati dei ranger».
IN GROENLANDIANon solo arrampicata. Convinto dalla moglie, che predilige gli sci e i lunghi viaggi fisici e mentali (lei è un cavallo da tiro, io da corsa) Dell'Agnola si è cimentato anche nelle traversate sui ghiacciai continentali della Groenlandia e della Patagonia. «Esperienze che pervadono nel profondo e che possono essere pericolose perché lasciano troppo tempo, per pensare e mettersi in discussione». In Groenlandia ci è andato con Michele Pontrandolfo, diventato poi uno tra i maggiori esploratori polari, con Giuliano De Marchi, compagno in altre spedizioni, con la moglie, Antonella Giacomini: «Rischiammo di morire di fame. Avevamo sbagliato i calcoli calorici per un ambiente così rigido, con altissimo dispendio di energie. Toccammo il fondo riducendoci a mangiare dei poveri uccelli di passo che erano morti assiderati, caduti vicino alle nostre tende».
MANRICO FOTOGRAFOLo sguardo dentro l'obiettivo, con la macchina fotografica che da sempre gli è compagna. «Ho cercato di portarmi a casa ciò che vedevo, per ricordare e per condividere. Farne una professione è stato naturale. Sapermi muovere in ambienti comunemente ritenuti difficili se non ostili mi ha aperto la strada al mondo dello sport, dell'azione».
Ecco i punti di vista raggiungibili solo da chi, come lui, mostra la facilità di un camoscio su una cengia. Da qualche anno Manrico ha sperimentato anche la cinematografia, da operatore e da attore. Come regista l'ultima fatica è Donna Fugata, storia della ripetizione in libera di Sara Avoscan e Omar Genuin della via omonima sulla Torre Trieste aperta da Cristoph Heinz. In un modo o in un altro il mondo dell'arrampicata rimane tuttora al centro della vita: «Solo che, invecchiando, tendo a togliere il superfluo per godere del gesto tecnico e atletico anche fine a se stesso. E cos'altro chiedere di meglio se il gesto è lungo una parete dolomitica?».
Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 14:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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