Sossai: «I miei cannibali tra le montagne»
Un western in bianco e nero sulle Dolomiti

Venerdì 12 Agosto 2022 di Chiara Pavan
Un momento delle riprese del film (foto Umberto Colferai)

Due uomini che si conoscono appena complottano qualcosa di misterioso. Un mondo in bianco e nero sospeso sulle Dolomiti, tra paesaggi vuoti che fanno sognare fughe impossibili in luoghi lontanissimi. Spazi pieni di bellezza e orrore, come gli uomini che li abitano, nuovi “cannibali” in un presente senza via d’uscita. Francesco Sossai ama questi territori che sembrano forgiare l’animo veneto, «che puoi misurare soltanto quando ti allontani da casa: finché ci stai e ci vivi dentro non lo percepisci». Il giovane regista bellunese, classe 1989, lo svela in “Altri Cannibali”, potente debutto nel lungometraggio che da qualche tempo sta conquistando i festival d’Italia e d’Europa incassando premi (dalle partecipazioni al Torino e al Trento Film Festival alla menzione speciale al recente Edera Film Fest; miglior attore e film al Neisse Film Festival, in Germania; gran premio della giuria al Febiofest di Praga; miglior film al Poff Tallin Black Nights in Estonia; il 28 agosto sarà a Venezia al festival indipendente “InLaguna”).

Un film denso, fuori dal coro e spietatamente lucido che Sossai, laurea in lingue e letterature straniere alla Sapienza di Roma, ha realizzato come saggio di diploma all’Accademia Dffb (Deutsche Film und Fernsehakademie Berlin).

Da Sedico dove è nato a Roma per l’università e Berlino a studiare regia. Come è stato?

«Ho sempre voluto fare il regista, sin da piccolo. Ma non sapevo “verbalizzarlo”. Guardavo di tutto, soprattutto i film proibiti, per me interessantissimi. Poi, liceo, un professore di italiano mi ha spinto a buttarmi. E ho cominciato a girare: con gli amici, in classe, d’estate. Quindi sono andato a Roma, ma non con l’idea di fare solo cinema, e alla fine Berlino, più di 4 anni all’Accademia nazionale di cinema. Ma volevo tornare in Veneto e raccontarlo, intanto però dovevo lavorare».

E diventa assistente alla regia di Sorrentino, Guadagnino, Nolan.

«Ho lavorato in molti set importanti: con Sorrentino una cosa piccola, le riprese sul Piave per “New Pope”, con Nolan in “Tenet” ad Amalfi, con Guadagnino alla serie tv “We are who we are”, ma sono stato anche a Venezia per “Mission Impossibile”. Belle esperienze, ho imparato molto su come funziona un set grande. E vedere lavorare questi grandi fa sì impressione, ma ti dà anche fiducia che... si può fare. Perchè ognuno di loro ha le proprie idiosincrasie, ma tutti cercano di raccontare qualcosa. E mentre lavoravo con loro, pensavo a quello che volevo fare io».

“Altri Cannibali” com’è nato?

«Un processo lungo, con molte ricerche sul posto. L’ho ambientato a casa mia, a Sedico. Ma è difficile raccontare casa tua a qualcuno che non ne sa niente. Sono partito da questa idea era: che penserebbe un alieno che guarda Sedico?»

E cosa pensa?

(risata) «Mica l’ho capito alla fine. Forse si spaventa. Chissà».

I suoi compaesani che hanno detto?

«A Sedico è piaciuto. E’ curioso vedersi rappresentati. È strano sentire parlare le voci di “casa”. Si pensa che cinema sia sempre l’America, ma sembra che quello che abbiamo attorno a noi non abbia diritto di rappresentazione. Invece, per me, questi luoghi sono un valore aggiunto».

La lezione di Mazzacurati.

«Sì, anche a me piace raccontare un posto, essere in un luogo, in quel luogo preciso. Mazzacurati ha capito come raccontarlo, il titolo giusto è “la giusta distanza”: per me la giusta distanza è starci appiccicato».

Bellezza e orrore in bianco e nero.

«Il bianco e nero è stata una precisa scelta stilistica. Per me il bianco e nero è associato ai western, ai classici di Ford e Hawks, che per me è anche casa, è Retequattro il pomeriggio in taverna dei nonni, a Sedico».

Cosa cercava nel suo “neo-western”?

«Il misterioso oggetto dell’autenticità, non il realismo. Lasciare che il pubblico possa entrare nelle storie e negli ambienti in modo che sembri naturale. Il mio immaginario si è formato su Elio Petri e Marco Ferreri, sono miei due fari, mi piace cinema italiano degli anni ‘70, quello politico, ma sono onnivoro e vado a periodi. Adesso sono in fase Dario Argento».

A cosa sta lavorando adesso?

«A un corto che inizio a girare a novembre, una co-produzione franco tedesca, “Il compleanno di Enrico”: è un ricordo di infanzia a Sedico, raccontato sempre sul doppio binario tra banalità e orrore. E poi sto preparando un secondo “movimento” dopo “Altri Cannibali”. Sempre sulla relazione tra persone e paesaggio deturpato. Sulle tracce di quanto raccontava Vitaliano Trevisan che mi ha illuminato, e poi Zanzotto, altro mio mito, e le altre voci interessanti del Veneto, da Parise a Bugaro, Maino, Scarpa».

E le montagne cosa sono?

«Vengono raccontate in modo “Unesco”, fiabesco e patinato. Ma per me c’è qualcosa dietro, ed è quello che mi interessa. È la civiltà delle montagne che si continua a rimuovere in nome di una globalizzazione che appiattisce ogni tipo di narrazione per venderla. Ecco, io trovo che sia interessante tutto ciò che non si può vendere». 

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