«Ecco cosa accade in corsia Covid: una tragedia mai vista e siamo pochi»

Giovedì 12 Novembre 2020
L'infermiera dell'area Covid di Feltre Laura Re racconta la vita in corsia
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IN PRIMA LINEA
FELTRE «Io non ho più parole. Mi dispiace, ma ora non ce la faccio più. Cerco in ogni attimo tirar fuori dalla mia persona il meglio che resta come donna e come infermiera. Ma non basta». Laura Re, 47enne sovramontina, infermiera Covid dell’ospedale di Feltre, è in prima linea a combattere la guerra contro il maledetto virus. Ma le armi che ha disposizione sono poche e i soldati, che combattono con lei, anche. Così, qualche giorno fa, presa dallo sconforto dopo una notte in cui ha dovuto fare in poche ore tre ricoveri, in uno sfogo ha scritto quello che vede ogni giorno in un post sul suo profilo Facebook. «Qui è come essere in guerra - dice - ognuno cerca di fare del proprio meglio, abbiamo riorganizzato il reparto dall’oggi al domani. Ma non basta. Certo se non fosse per il Covid si lavorerebbe bene, ma questa situazione richiede più “soldati” e a volte non ce la facciamo».
IL DRAMMA
«Ho lavorato per 18 anni in Terapia intensiva/Rianimazione - racconta nel suo post l’infermiera Laura, che lavora per l’Usl a Feltre da 26 anni - e mai ho visto ciò che ora i miei occhi la mia anima e il mio cuore devono vedere in questo periodo. Per quanto possibile tutti cerchiamo di dare il massimo. Ma, ahimè, anche il Covid detta ora le sue amare leggi della savana. Dove vige la regola di chi ce la fa. Del più forte. Perché amaramente è così». E prosegue: «Sono veramente triste. Triste per tutto quello che il Covid mi fa vedere ogni giorno in cui indosso per sei otto ore una tuta, doppi occhiali che si appannano. E ogni attimo in cui chiedo scusa per non trovare una vena: io, che ero così brava così esperta. Il Covid mi fa vedere tante troppe dure verità: un’azienda che ti usa fin che vai bene. Che ti chiama dalle ferie all’ultimo giorno che ti sbatte in un reparto Covid. Ti devi arrangiare. Con un continuo correre tra ricoveri. Dimissioni... dimissioni in obitorio senza un parente che possa condividere questo dolore».
LA TESTIMONIANZA
«Questa ondata molto più tragica della prima - spiega Laura - e ci sono ricoveri di persone che sono molto più giovani». Lavora nell’area Covid a media-bassa criticità del Santa Maria del Prato, ovvero dove ci sono i degenti che vengono aiutati con ossigeno e una ventilazione meccanica poco invasiva. In quello a più alta intensità ci sono i degenti con i caschi, in terapia intensiva gli intubati. «In tanti anni di lavoro - racconta Laura - ma una cosa così non mi era mai successa. Eppure in rianimazione ne ho viste tante, politraumi, giovani in fin di vita. Ma una tragedia così no. I pazienti non capiscono, ti guardano sgomenti e cercano in te una risposta che non hanno. Ma che non abbiamo neanche noi, nemmeno i medici». E spiega l’inizio dell’emergenza, qualche settimana fa: «Sono stata chiamata a lavorare in area Covid dal mio reparto dove lavoravo, in Cardiologia, il venerdì per il sabato. Io, come altri colleghi, ci siamo trovati tutti infermieri nuovi da diverse realtà. Per fortuna abbiamo trovato la caposala e pneumologi che sanno trattare questa problematica con grande professionalità. In una settimana hanno esteso i posti letto da 7 a 12. Solo l’altra notte abbiamo fatto 3 ricoveri. La media delle età è di 70/80, ma ci sono parecchie persone anche dai 40 ai 60 anni. Ci siamo accorti poi che i sintomi peggiorano anche dopo 10 giorni: è capitato che fino al decimo giorno una persona ti dice “sto bene” e poi il quadro clinico precipita». «Qui non può entrare nessuno - prosegue -, la mattina, oltre al lavoro in reparto, noi siamo bombardati dalle telefonate dei parenti e quando muore una persona questo viene messo in un sacco e bruciato e le sue cose di valore devono essere messe in busta chiusa. Non ci si abitua a tutto questo».
IL CASO
Tra i ricoverati anche un parrucchiere di 51 anni feltrino. «È arrivato dentro con febbre e con brivido scuotente - spiega -. Era da tre giorni che chiamava a casa la guardia medica e gli avevano detto che gli avrebbero mandato l’Usca (le Unità che svolgono attività domiciliari per i pazienti Covid-19 ndr), ma nessuno è andato da lui. Era spaventatissimo e mi continuava a chiedere “Perché a me?». «Non riusciamo a capire neanche noi - prosegue -, questo ci rende sgomenti. La carica virale è sempre più alta e adesso ci troviamo a dover fare ricoveri di persone che non vengono seguite a casa, perché ce ne sono talmente tanti, e arrivano in ospedale impauriti. L’altra sera è arrivato un paziente da Calalzo: era stato portato a Belluno, ma non c’era posto e poi qui a Feltre». 
POCHI IN CORSIA
C’è il rischio di trovarsi a dover scegliere chi curare? «In un certo senso lo stiamo già facendo - ammette -: tutti vengono seguiti, un posto è garantito a tutti, ma per la qualità delle cure sì: alla domanda di fronte ad una 40 e un 70 enne in fame d’aria chi guardi per primo? Non puoi fare tutto come in un reparto normale. O ci arriva personale in più e anche molto istruito. Oppure è impossibile. Siamo 3 infermieri e 2 operatori di giorno e 2 infermieri e un operatore di notte».
Olivia Bonetti
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Ultimo aggiornamento: 14:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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