Diffamazione su Facebook archiviata: «Il social non ci ascolta»

Domenica 7 Novembre 2021 di Davide Piol
Assia
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BELLUNO- Per la Procura di Belluno la questione deve essere risolta oltre oceano.

Gran parte delle rogatorie internazionali, riguardanti diffamazioni su Facebook, vengono infatti respinte dal dipartimento di giustizia degli Stati Uniti per evitare uno «spreco di risorse». Ma Assia Belhadj, l’italo algerina discriminata sui social con centinaia di messaggi razzisti (su cui è stata aperta un’inchiesta, archiviata di recente dal giudice di Belluno), parla di una doppia giustizia: «Il reato è stato confermato – ha sottolineato Belhadj – ma non hanno voluto approfondire perché sono la parte debole della società. Conosco casi di diffamazione finiti con un risarcimento, non nel senso monetario del termine, ma è stata ridata dignità alla persone discriminata». È botta e risposta tra l’istituzione che dovrebbe tutelare chi è vittima di reato (in questo caso quello di diffamazione), ossia la Procura, e chi quel reato lo subisce. Stando a quanto raccontato da Assia Belhadj, assistita dall’avvocato Enrico Rech, la Procura aveva scritto di non essere riuscita a fare indagini sui profili social dei leoni da tastiera perché «la rete in uso all’ufficio non consente l’accesso a Facebook». Così il gip ha archiviato il caso. La notizia è rimbalzata ovunque, al punto che il procuratore Paolo Luca ha deciso di intervenire personalmente per chiarire la vicenda: «In relazione alle notizie apparse sulla stampa secondo le quali il procedimento sarebbe stato archiviato perché la Procura non ha i social si comunica che per i reati di diffamazione esistono rogatorie internazionali su cui gli Stati Uniti hanno inviato una nota nel 2016». In effetti, cinque anni fa, il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha scritto alla Procura di Roma mettendo un punto alle richieste che arrivavano dall’Italia con lo scopo di ottenere dati da Facebook e altri gestori Internet (“Internet Service Providers”) statunitensi nell’ambito di indagini e processi penali per la fattispecie di reato di diffamazione. «Negli Stati Uniti – si legge nella nota inviata nel 2016 – la diffamazione non è un reato; anzi, le affermazioni contenute nei profili Facebook ritenute diffamanti sono protette dal diritto di libertà di espressione, ai sensi del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti».


INUTILE SPRECARE RISORSE
La libertà di espressione gode di un regime privilegiato negli Stati Uniti e «nessuno è perseguibile per l’esercizio di tale diritto a prescindere da quanto possa essere sgradevole, offensivo e molesto il contenuto veicolato». È per questo motivo che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti respinge regolarmente le rogatorie internazionali che riguardano la diffamazione. Ma ce n’è un altro. Si vuole evitare uno spreco di risorse che, scrive il dipartimento, potrebbero essere dedicate a reati più gravi come l’omicidio, il terrorismo e importanti intrusioni informatiche. Inutile chiedere direttamente a Facebook perché valgono gli stessi principi.


«QUESTIONE DI POTERE E FONDI»
Ma è davvero così? Come mai in alcuni casi i responsabili di diffamazione sui social vengono invece individuati e condannati? «Se hai potere e soldi – ha commentato Assia Belhadj – sei salvo, altrimenti vivi con l’ingiustizia e devi ingoiarla giorno dopo giorno. Da cittadina posso dire di esser stata discriminata dalle persone che mi hanno scritto quei messaggi. Le istituzioni italiane devono garantire la giustizia per tutti ma nel mio caso questo non è accaduto. In questo modo la fiducia tra cittadini e istituzioni si rompe». Belhadj ha lanciato un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e intende andare fino in fondo: «Vorrei che la mia vicenda andasse oltre. Sto cercando delle associazione europee per i diritti umani che possano aiutarmi. È stata un’ingiustizia nei miei confronti in quanto cittadina europea».

Ultimo aggiornamento: 08:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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