Candido, l'ultimo recuperante del Col di Lana: «Io e mio padre tra i resti della Guerra per sfamarci»

Venerdì 6 Gennaio 2023
Candido Murer, cento anni

ROCCA PIETORE (BL) - Rocca Pietore, ricordi del tempo in cui, armati di piccone e zaino in spalla, si partiva per cercare tutto quello, di metallo, che la Grande Guerra aveva disseminato nei due anni e mezzo dal maggio 1915 all'ottobre del 1917 tra i ripidi pendii del Col di Sangue. Erano i recuperanti del Col di Lana, quell'esercito di uomini e ragazzi che per anni hanno scavato tra le zolle e i ghiaioni di questo monte sacro alla Patria, per cercare munizioni, filo spinato, lamiere, armi e qualsivoglia ferraglia per trasportare tutto a valle e poter guadagnare qualcosa per sbarcare il lunario di una vita ancora grama, dove il lavoro in loco era poco e spesso si doveva fare la valigia ed emigrare lontano. Candido Murer il 23 gennaio del 2023 compirà cent'anni. Originario della frazione di Laste, oggi vive nella frazione di Digonera, sempre in comune di Rocca Pietore in casa di Alba, una delle sue tre figlie.

E proprio dalla finestra della stua, dove spesso si mette a leggere il giornale, egli intravede il Col di Lana e allora i ricordi spaziano a ritroso, quando da ragazzo saliva lungo le falde irte ed erbose con il papà Eugenio per cercare reperti di guerra per poterli poi rivendere. Ricordi, che nonostante il secolo di vita, sono ancora incisi e ben nitidi nella memoria di Candido, uno dei pochi se non l'ultimo recuperante del Col di Lana.

GLI INIZI
«Un giorno - avrò avuto quattro, cinque anni - io e mio padre ci trovammo a Pieve di Livinallongo, mio padre era alla ricerca di lavoro e così trovò un suo conoscente originario della frazione di Brenta, che gli diede l'incarico di portagli del filo reticolato. Salimmo allora alla frazione di Corte, dove avevamo saputo che c'erano delle enormi cataste di reticolati in quanto i contadini avevano cercato di bonificare i pascoli per riprendere l'attività e avevano raggruppato in enormi mucchi tutto il filo spinato che trovavano. Mio padre però non era attrezzato, prese un pezzo di legno per cercare di avvolgere il filo spinato, ma era un'impresa veramente improba, comunque si riuscì a recuperare qualcosa. Fortunatamente in questo paesino c'erano due giovani, che oggi definirei galantuomini, che ci prestarono un bobina. E allora sì che il lavoro si faceva interessante e si poté recuperare tantissimo filo spinato, tanto che in una settimana mio padre riuscì a guadagnare cento franchi, cifra importante e una gioia immensa considerato che in famiglia non avevamo nemmeno un centesimo per comperare una scatola di fiammiferi».
E da qui, da un'episodio, nacqua l'idea di trasformare la necessità in un vero e proprio lavoro: «Mio padre e io lo facemmo per molti anni».

L'EPOPEA
Salivano a frotte i recuperanti, in gran parte dai paesi di Laste e di Digonera, per andare a cercare ferraglia tra le trincee e le gallerie del Col di Lana. Armati di piccone e refa, una sorta di zaino in tela. E lassù ci rimanevano un'intera settimana. Ricorda Candido: «Spesso eravamo anche duecento, molti si facevano un misero ricovero, magari con le lamiere recuperate nelle trincee e si stava lì a scavare tutta settimana. Il nostro ricovero era tra la cima del Lana e il monte Sief, lì c'era una specie di piccolo pianoro, e avevamo costruito un capanno, verso la fine della settimana arrivavano le mie sorelle, salivano fin lassù per portarci il mangiare».

LA CERNITA
Bisognava innanzitutto disinnescare le pallottole o le bombe sul posto. «Da una parte si metteva la polvere, da un'altra la latta e da un'altra ancora il piombo. Cose che venivano pagate in maniera diversa. Il tutto si portava a Pian di Salesei, dove ora c'è il Sacraio. Una ditta trentina aveva l'appalto per incamerare e pagare tutta questa ferraglia. Ma a Digonera saliva anche una ditta trevisana a raccogliere questi reperti e li pagava molto meglio, così molti di noi davano il ferro di scarto ai trentini e trasportavano quello più pregiato nel Trevigiano. Ma questo durò poco perché i trentini vennero a sapere di questo e assunsero due guardie che vigilavano lungo la sponda del Cordevole per mettere fine al contrabbando. La cosa però continuò, fino a quando la ditta trentina ebbe la brillante idea di licenziare le guardie e con quei soldi pagare di più il ferro».

LE SALME
A volte chi faceva questo mestiere si imbatteva anche nei resti di qualche soldato dimenticato sul campo. «Un giorno iniziammo a scavare sotto la mina del monte Sief che aveva provocato una colata di detriti spaventosa. Sotto un grosso masso trovammo sepolto un nido di mitragliatrice italiano dove c'erano rimasti due alpini. Recuperammo la mitragliatrice e un grande numero di cartucce, e anche i resti dei due soldati, inoltre trovammo un binocolo che era come nuovo. A Cortina in quegli anni chi portava i resti dei soldati morti veniva pagato venticinque lire mentre a Livinallongo spesso non davano niente. Così mio padre partiva con il sacco carico dei resti dei soldati, quasi sempre di notte per non farsi vedere, e arrivava al passo Falzarego dove salivano quelli del costruendo sacraio-ossario di Pocol a prenderli. Bisognava però certificare che erano stati trovati nella zona di Cortina delle Tofane o Lagazuoi, ma la certificazione era assai blanda e nessuno andava ad accertare in quale luogo fossero stati recuperati».
Recuperare e disinnescare ordigni bellici. Un mestiere pericoloso. E ci scappava anche il morto. «Succedeva abbastanza spesso. Avrò avuto tredici, quattordici anni e con un mio padre eravamo scesi dal Col di Lana a prendere qualcosa da mangiare. Nel risalire, sentimmo un botto tremendo. Mio padre disse: una bomba esplosa in galleria. Perché spesso le bombe difettose si portavano all' interno delle gallerie e si facevano brillare. Io risposi: no, questo è uno scoppio all'aperto, vedrai che qualcuno c'è rimasto. E in effetti aveva perso la vita un certo Toffoli da Saviner. Arrivammo sul posto e vedemmo la scena straziante, del povero uomo non era rimasto nulla. Scendemmo e segnalammo il caso ai carabinieri, che recuperarono i resti del poveretto».
I ricordi di Candido continuano senza fine, tra i vari toponimi del Col di Lana - Cappello di Napoleone, Panettone, Cima Lama - nel ripercorrere un'altra guerra, quella di tante famiglie che combattevano la fame grazie all'aiuto di quel colle intriso del sangue di tanti giovani soldati austriaci e italiani.
 

Ultimo aggiornamento: 16:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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